Gli U.S.A. e la privacy delle comunicazioni: il non segreto dell’era tecnologica

Amedeo Tesauro

Si chiama PRISM, cinque lettere per indicare un programma elettronico che ha scosso dalle fondamenta l’amministrazione Obama trascinandola in uno scandalo estremamente scottante. A lanciare il sasso è stato il Guardian, ma subito sulla notizia si sono fondati i maggiori quotidiani internazionali, rivelando l’attività di controllo messa in atto dal governo statunitense in nome della difesa nazionale. Del resto l’11 settembre ha segnato un netto punto di svolta in termini di misure di sicurezza, motivando un serrato controllo dei cittadini sia fisicamente che, in virtù delle nuove possibilità tecniche, virtualmente. Secondo quanto venuto alla luce, l’Agenzia di Sicurezza americana (NSA) avrebbe accesso alle banche dati di colossi quali Google, Yahoo, Apple, Facebook, nonché alle telefonate di compagnie largamente diffuse quale Verizon, con possibilità illimitate: accesso ai dati personali con tanto di memorizzazione delle preferenze, controllo sui dispositivi in uso, ogni riga inserita in un motore di ricerca a disposizione del governo. Certo, per chi non ha nulla da nascondere non è certo preoccupante, ma si prenda come monito l’aforisma del cardinale de Richelieu: “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare”. Una questione di principio e di diritti, al di là del caso specifico. La problematica è del resto ampia, e riguarda il limite tra ciò che lo Stato legittimamente fa per la propria protezione, e ciò che invece invade la sfera dell’utente, un conflitto che è specchio dell’evoluzione del diritto alla privacy negli ordinamenti legislativi: da diritto a non far sapere nulla di sé al diritto di sapere chi, ed a quale fine, tratta i nostri dati. Ma a ben vedere il clamore suscitato è in parte sorprendente, chiunque può facilmente constatare come ciò che facciamo nei sistemi elettronici sia tranquillamente rintracciabile, e non solo in Internet, basta pensare alle carte di credito e alle operazioni al terminale che vengono registrate e archiviate, o ai sistemi di geolocalizzazione che notificano la nostra posizione. In Rete, invece, ogni volta che entriamo in un social network o perfino giochiamo con qualche applicazione, stiamo dando accesso ai nostri profili e a quanto in essi contenuti. I contratti che accettiamo senza leggere autorizzano all’archiviazione dati, e sempre più le pubblicità che compaiono in Rete sono personalizzate, generate a partire dalle nostre ricerche sui motori di ricerca: se cerchiamo su Google le migliori offerte per un nuovo televisore, possiamo stare certi che verremmo invasi da pubblicità ad hoc che rintracciano per noi i prezzi più bassi. E’ davvero sorprendente dunque sapere che i governi, ovvero chi detiene un potere assoluto e come tale agisce legalmente o oltre i limiti della stessa legge, spiino le nostre conversazioni e operazioni accedendo a banche dati in cui noi stessi abbiamo riversato i nostri dati personali? Che ciò venga confermato in tutta la sua forza può animare una certa preoccupazione, ma il segreto è solo di nome, a conti fatti una minima conoscenza dei sistemi elettronici permette di sapere le potenzialità nelle mani di chi controlla quei sistemi. Vale la pena di ricordare come meno di un anno fa William Binney, ex membro dell’Agenzia di Sicurezza che negli anni si è mosso per rivelare le dinamiche segrete in certi ambiti, sosteneva come il governo U.S.A. fosse in grado di aver accesso ad ogni comunicazione sul suolo del paese (nonché possibilmente fuori da esso come rivela PRISM). Poco importa che gli amministratori di Google o il creatore di Facebook Zuckemberg neghino di aver fornito dati, salvo su esplicita richiesta delle autorità, la tracciabilità delle nostre attività è ovvia a livello tecnico, e sempre più i governi si muoveranno in quella direzione.