Boldrini e l’odio in Rete: una problematica al di là del virtuale

Amedeo Tesauro

Laura Boldrini ritorna sulla polemica che l’ha vista protagonista nelle ultime settimane. Aveva sostenuto la necessità di un intervento sul web, mezza ritrattazione in proposito, per porre un freno alle campagne d’odio e alle offensive perpetrabili attraverso la Rete, nei giorni scorsi ha ribadito l’esigenza di considerare le minacce online alla stregua delle intimidazioni reali. Ciò a cui la Boldrini fa riferimento sono le opinioni, i tweet, le dichiarazioni, a volte sfrontate a volte apertamente ostili se non razziste o sessiste, che possono rintracciarsi in Rete. Un atteggiamento generalizzato che se indirizzato a un bersaglio può scatenare un violento attacco virale nei confronti del soggetto in questione, una campagna d’assalto che rischia di vedere il virtuale trasformarsi in reale. Comunemente è identificato come “hate speech”, incitare all’odio, ed è in in realtà un nodo aperto da moltissimo tempo, una problematica che concerne il diritto alla libertà di parola, i suoi confini, ma soprattutto l’applicazione concreta di certi limiti nel territorio di internet. La questiona non soltanto ha soluzione incerta, ma risulta complesso perfino definirla correttamente. I problemi legislativi sono principalmente due: la rapidità dell’evoluzione della materia e la giurisdizione delle norme. Tradotto: la tecnologia evolve troppo in fretta e la Rete è un mondo aperto, mentre la legge ha un preciso ambito di applicazione fisico. Se sul primo versante si può operare con leggi dalle maglie larghe, rimanere sul generale sperando di comprendere più casistiche possibile, il secondo fronte richiede collaborazioni internazionali al fine di stabilire regole comuni. Facile a dirsi ma difficile a farsi, tenendo presente come per definizione il diritto sia una scienza storico/sociale, ovvero con validità limitata a un singolo momento e in una singola società. Si comprendono allora le difficoltà di far coincidere le aspirazioni e gli interessi di culture e di apparati politici profondamente distanti in fatto di tolleranza e libertà. Ciò che teme la comunità telematica è principalmente una limitazione assoluta al fine di impedire la libera espressione di opinioni, sarebbe a dire sfruttare il comportamento di pochi per far passare normative che stravolgano la libertà presente in Rete. Era già avvenuto col decreto Alfano, si temono nuovi tentativi dal sapore di bavaglio. D’altro canto è pacifico sostenere che la libertà di parola non coincida con l’offesa e l’ingiuria, vale nella realtà e vale anche ne virtuale. Alla Boldrini ha replicato sapientemente Stefano Rodotà, il giurista recentemente in corsa per la carica di presidente della Repubblica che in precedenza aveva ricoperto il ruolo di garante della privacy, il quale ha sostenuto che le leggi esistono semmai bisogna farle applicare coprendo tutte le evenienze possibili. In realtà sia la Boldrini che Rodotà concordano su un aspetto: il problema culturale. Ben prima della Rete, gli insulti, le ingiurie e le discriminazioni ci son sempre state, e se siamo stati disposti ad accettarle perfino dalla nostra classe politica (Rodotà cita la Lega ma anche l’usanza frivola di eleggere Miss Montecitorio), risulta perfino paradossale che si pretenda rispetto dai cittadini quando vi è la possibilità di nascondersi dietro uno schermo. In altre parole, se non cambia la mentalità risulta perfettamente inutile creare leggi ad hoc in un contesto in cui aggirarle è un gioco da ragazzi. Ciò che è oggetto di controversia nel reale, lo è anche nel virtuale.