RAI: il servizio pubblico al servizio politico

Amedeo Tesauro

C’è stato per decenni in Italia un business monopolizzato dallo Stato, un ambito estremamente rilevante dove un unico operatore rischia di far male all’intero sistema, un territorio relativamente vergine dove solo il soggetto pubblico poteva agire libero: il sistema radio-televisivo. Invero la questione è ben al di là dei confini dello stivale, il monopolio statale relativo a radio e telediffusione è stato per decenni valido in tutto il continente generando quasi ovunque medesime problematiche e risultati. Che la competizione canora più famosa del paese abbia rischiato nei giorni scorsi di saltare per un’esternazione fuori dai canoni dalla satira è riconducibile a un controllo politico sviluppatosi volutamente nel corso del tempo. Bisogna tornare indietro e fare un po’ di storia, rammentare che l’Italia repubblicana ritenne adeguato regolamentare la televisione allo stesso modo in cui il Fascismo aveva legiferato sulla radio, stabilendo dunque l’esclusività di trasmettere temendo un dissenso proveniente da iniziative private. Fu solo negli anni settanta, quando una sentenza del 1974 stabilì il monopolio statale sulle frequenze nazionali ma non su quelle locali, che in Italia si favorì la nascita delle emittenti commerciali e lo sviluppo di altre voci al di fuori di quella RAI. L’anno dopo, in nome di un pluralismo da più parti invocato, fu varata la legge 103/75, la cosiddetta “riforma televisiva”, che consegnando l’azienda RAI al controllo parlamentare diede via alla spartizione delle cariche, e delle reti televisive, ai partiti. A circa quaranta anni da quel provvedimento il mondo delle comunicazioni è mutato: la RAI è l’azienda pubblica del settore più forte d’Europa, Inghilterra esclusa, esiste una concorrenza privata diretta rappresentata da Mediaset, nonché la presenza di una forte tv a pagamento come SKY, e col passaggio al digitale molteplici sono le possibilità. Tuttora, però, la gestione politica rimane tema d’attualità, oggi più di ieri in un panorama politico in cui non vi è il dominio solido di una forza come ai tempi della Democrazia Cristiana ma l’alternarsi frenetico di coalizioni desiderose di mettere le mani sulla televisione di stato. Mentre Berlusconi lancia la sua offensiva mediatica presenziando alle proprie reti cogliendo l’occasione per sparare su La7, una certa sinistra invoca di avventarsi sulla RAI prima del Cavaliere per evitare che l’ex premier rimetta i propri uomini nei posti chiave, proponendo come soluzione la medesima ricetta: occupare a propria volta viale Mazzini. A perderci, ovviamente, gli italiani che da una faziosità di un certo colore passerebbero a una faziosità dell’altro. Se il conflitto d’interesse berlusconiano è sempre d’attualità perché porrebbe la TV di stato nelle mani del proprietario della concorrenza, la problematica vera rimane al di là del leader del PDL, risiede nell’avere un servizio pubblico ostaggio della politica e visto come terra di conquista colma di cariche da dividere ai più fedeli servitori. Ciò che da noi non ha mai funzionato sono stati gli organismi di controllo, anch’essi frutto del sistema politico tale da sfalsare considerazioni obbiettive, perfino l’AGCOM, l’Autorità Garante delle Comunicazioni introdotta nel 1997 come autorità indipendente sulla scia europea che incentivava tali authorities, non ha mai vissuto di luce propria perché composta da nomine politiche. In un simile scenario non c’è da stupirsi di certe polemiche al primo virare verso un lato o l’altro, ma si badi bene come per un caso Littizzetto dovuto al suo commento su Berlusconi, alle medesime condizioni se ne verificheranno altri con nuovi comici e nuovi bersagli. Ci vorranno altri quaranta anni per modificare le cose?

 

 

3 pensieri su “RAI: il servizio pubblico al servizio politico

  1. Il metodo usato, da sempre, per ghigliottinare economicamente parte del ceto medio e ridurlo in povertà, è quello delle imposte e tassazioni fisse per tutti (compreso canone TV,l’Imu sulla sola casa, le tasse fisse per professionisti, imprese ed attività commerciali ecc). Pensate che rappresentano le 113,50 euro per chi “piglia” 30 mila euro al mese e per un pensionato che ha una pensione di 600 euro. Tutte le vessazioni fisse violano il principio di partecipazione alla spesa pubblica secondo le possibilità. Ecco che si vedono imprese fallire, attività professionali e commerciali in crisi. Questo perché se non ci sono troppi poveri, non possono esserci molti ricchi. I movimenti che avrebbero dovuto aspirare ad una maggiore giustizia sociale hanno abdicato al loro ruolo per la speranza del potere, ma faranno la fine del cane che vuol prendere l’osso riflesso nel lago.

  2. Caro Amedeo,
    quali garanzie ci si può aspettare da questa classe politica.
    Sia quella al potere che quelle all’opposizione (si fa per dire, dato che oggi non si riesce più a capire chi fa il Governo e chi l’opposizione e quale opposizione
    …. ammesso che ci sia qualcuna che veramente la faccia!).
    L’ AGCOM per quello che si è rivelata dopo il voto referendario – per me – si è rivelata un ulteriore meccanismo di alienazione della libertà di informazione.
    D’altronde dai Governi Berlusconi a quello Monti possiamo veramente dire che ce ne sia qualcuno che ci possa garantire.
    Questi fanno semplicemente a gara a chi riesce ad alienarci più diritti costituzionali.
    Credo che come stanno le cose, dobbiamo sperare solo in un tsunami che se li porti via tutti.In questo Paese i rifiuti solidi non si riescono a riciclare, ma l’immondezzaio politico, purtroppo si ricicla sempre.
    Onofrio Infantile

  3. L’AGCOM per definizione non può funzionare. Finché si stabilisce che i membri delle commissioni interne siano scelti da Senato e Camera e il presidente dell’organo nominato dal Presidente della Repubblica su proposta di quello del Consiglio, fallisce già negli intenti l’idea di indipendenza.

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