Le sentenze si commentano

Angelo Cennamo

Non sappiamo se Berlusconi ( come ha stabilito il tribunale di Milano il 26 ottobre), tra il 1998 e il 2003, si sia macchiato del reato di frode all’erario, avendo “sistematicamente evaso il fisco, danneggiando non solo lo Stato ma anche Mediaset”. Non sappiamo neppure se il Cavaliere con la stessa condotta ( presunta fino al passaggio in giudicato della sentenza) abbia o meno alimentato dei fondi neri insieme con un presunto socio americano, che lui sostiene di non aver mai conosciuto. Sappiamo però molto altro. Sappiamo, ad esempio, che nel marzo del 2010, il tribunale che oggi ha condannato l’imputato Berlusconi Silvio si rifiutò di rinviare un’udienza ( lasciando sospesi i termini della prescrizione del reato) perchè non giudicò legittimo impedimento un consiglio dei ministri in cui l’allora premier era impegnato ( ci chiediamo quale altro impedimento si possa considerare legittimo se non un’attività di governo di una Nazione). Di fronte a quel rifiuto, i legali del presidente del consiglio in carica sollevarono un conflitto di attribuzione ( lo stesso che Giorgio Napolitano con ben altra enfasi ha sollevato recentemente per la vicenda della trattativa Stato mafia) sul quale la Consulta non si è ancora pronunciata. Perchè mai il tribunale di Milano non ha inteso aspettare il verdetto dell’alta Corte che, nel caso dovesse essere favorevole alla parte istante, potrebbe di fatto annullare quasi interamente il processo di primo grado, sentenza compresa ( tenendo conto che anche in questo caso i termini della prescrizione sarebbero rimasti sospesi)? Ma le stranezze non sono finite. Altrettanto inusuale, infatti, è stata la scelta del giudicante di scrivere e leggere in aula, contestualmente al disposto, anche le motivazioni della sentenza ( che fretta c’era?). Il fatto non è di poco conto se si considera che tale opzione ( rarissima per ogni altro comune mortale) costringerà i legali del condannato a preparare l’appello in soli 15 giorni. Resta infine il paradosso, degno della migliore tradizione sofista, secondo cui proprio il contribuente che paga più tasse allo Stato italiano ( un milione e quattrocentomila euro al giorno) venga condannato per il reato di evasione fiscale. Le sentenze vanno sempre rispettate, ma qualche volta ci sia consentito commentarle.