Francesco Terrone, ingegnere-poeta

Aldo Forbice

Il poeta Andrea Zanzotto amava raccontare che Pollicino era l’angelo custode della poesia. “Chi legge i versi – scriveva in un sonetto – raccoglie le briciole che lo riportano a casa”. E’ questa l’impressione più immediata che abbiamo ricevuto dalla lettura delle poesie di Francesco Terrone, anzi dell’ingegnere Francesco Terrone. Sì, perché questo poeta, si è laureato non in letteratura, ma in ingegneria meccanica all’Università Federico II di Napoli. Non solo, ma provenendo da una cittadina del Salernitano (San Severino) non gli è stato facile affermarsi come imprenditore, soprattutto nei mercati del nord, visto che è anche riuscito a realizzare una Società di ingegneria che funziona molto bene, nonostante la recessione. Ma Terrone, raccogliendo “briciole” di umanità e sentimenti in tutta Italia, nelle località dove si reca periodicamente per il suo lavoro di ingegnere, semina versi, li raccoglie e li pubblica in raccolte, che sono state molto apprezzate, a giudicare dalle decine e decine di premi che ha collezionato in ogni parte d’Italia. La poesia di Terrone (il nome certo non lo ha favorito nei suoi rapporti con gli imprenditori del nord) a che cosa si ispira? Come possiamo definire la sua poetica? Proviamo a dare una risposta o meglio una chiave di lettura. Innanzitutto, conoscendolo, non abbiamo avvertito in lui alcuna forma di “ schizofrenia”, ciò si rivela dal complesso del suo lavoro e dalle sue doti umane ed intellettuali, nessun sdoppiamento di personalità, tra il tecnico che progetta impianti, tra l’imprenditore che li realizza e l’appassionato cultore e scrittore di versi. Immagino, tutt’ al più, l’immagine di una faccia di una medaglia o, per ricordare un’altra metafora, la metà di una mela verde, con l’altra metà intessuta di elettrodi e altri elementi tecnologici. Del resto perché stupirsi? Nella letteratura italiana ( e non solo) non abbiamo visto che esistono letterati medici, magistrati, architetti, matematici che scrivono versi e compongono musica? In un Paese in cui da tempo la poesia ha smesso di far parte della vita culturale ( almeno di quella che “fa notizia”, della maggioranza) , nonostante una ricca tradizione poetica, non può che far piacere la “nascita” di un autentico poeta, che trova ispirazione nei luoghi di lavoro, nella vita di tutti i giorni, che nei percorsi dei sentimenti, a cominciare da quello universale, rappresentato sempre dall’amore, ma anche l’amicizia, la natura degradata da proteggere, la religiosità. Fa riflettere certo il lavoro di un “ingegnere – poeta”, in un Paese che dice di amare la poesia, ma che poi conta pochissimi lettori. Infatti, nelle librerie si comprano pochi testi di autori, anche di autori con nomi  affermati e perfino premi Nobel, come Neruda, Garcia Lorca, il Nobel Wislava Szymborska, per non parlare dei nostri   Montale, Quasimodo, Zanzotto, Raboni, Alda Merini e tanti, tantissimi altri. Nelle librerie, com’è noto, le raccolte liriche occupano poco spazio perché la richiesta è molto limitata. E tutto questo mentre nel Paese si contano dieci milioni di “artigiani delle parole”, di tutte le professioni e mestieri, che scrivono un verso dopo l’altro. Almeno tre milioni,  stando a recenti indagini, lo fanno con una certa assiduità. Terrone non fa parte della categoria dei “poeti contadini” o “poeti operai” e neppure di quei professionisti che, producendo versi, riempiono i loro “vuoti esistenziali”. La poesia, ha confessato lui stesso, “non è un hobby, ma per me è una ragione di vita”. Infatti,  quello di Francesco, è un percorso parallelo, irto di sassi, trappole, pece bollente e insidie imprevedibili. “Se i muri fossero/ di gomma/ tutte le ingiustizie/ ritornerebbero/ all’ingiusto/ Se i muri fossero/ trasparenti…/ anche i cuori non sarebbero di pietra…” Parole semplici, dirette, non sorrette da complicate o vetuste alchimie verbali, ma che aggrediscono, coinvolgono subito, cuore e cervello. L’autore utilizza le parole come note musicali, per “raccontare” storie, emozioni, vibrazioni, tensioni, ma non vuole “spettacolarizzare”, colpire eccessivamente l’attenzione dei lettori. Anzi, non sembra curarsi troppo dei lettori, come se si trattasse di un regista che allestisce un lavoro teatrale accurato, in modo rigoroso e appassionato, ma senza preoccuparsi troppo del pubblico. In altre parole, sembra che la poesia venga concepita dall’autore come una sorta di terapia, anzi un’autoterapia, che però “può servire” anche agli altri. E gli altri, cioè i lettori, nella gran parte dei casi si identificano nelle “storie poetiche”, raccontate in versi con  una penetrante tecnica stilistica, linguistica e fonetica. Nei contenuti è presente anche l’ispirazione religiosa, a conferma della profonda fede cristiana dell’autore. Ma il lavoro poetico di Terrone lascia trasparire anche filosofie indù, buddiste e di altri culti orientali: tendenze spirituali che evocano i valori dell’amore, della serenità, della pace: “Mi piacerebbe essere/ una conchiglia,/ per godere oltre il mare/ la felicità della luce/ nei colori della libertà/ dell’amore”. Nei suoi versi l’autore non ha mai sentito l’affanno di scrivere capolavori. Vuole solo trascrivere poesie sulla vita autentica della gente comune, una vita talvolta polverosa, grigia e regolata dall’incertezza. Vi sono però anche  parole di rabbia, di provocazione, di speranza e di invito alla pazienza e resistenza. Del resto non è intessuta di queste emozioni e tensioni la vita degli esseri umani? E’  anche tutto questo che spesso fa trasformare i canti poetici in poesia civile, con un fortissimo valore etico, di grande responsabilità. Un poeta  dunque, che si rifà alla tradizione dell’ 800 e della prima metà del ‘900 (quando la poesia era veramente popolare) e  che – come anarchico della parola – sceglie la strada dei canti d’amore, frammisti a empiti di saggezza e di modernità che fanno amare, anche con rabbie positive, la vita in tutti i suoi aspetti.