Filosofi e retori

Fulvio Sguerso
Ancora oggi, quando vogliamo stigmatizzare un discorso che ci appare gonfio, ampolloso, più compiaciuto della forma che della sostanza, diciamo che è soltanto retorica. Strana sorte di una parola che per secoli ha significato la tecnica dello scambio comunicativo più efficace nelle relazioni sociali, giuridiche  e politiche tra gli appartenenti a una medesima polis. In origine, infatti, il valore semantico connesso all’idea e alla pratica della retorica era del tutto positivo: in greco he techne rethorikè significa l’arte dell’eloquenza, la tecnica del parlar bene e, in seguito, anche dello scrivere bene. Dal primitivo ambito religioso nel quale la parola possedeva una potenza e un’efficacia quasi ipnotica di persuasione e di seduzione, la tecnica retorica si estese all’ambito giuridico, politico e letterario. La tradizione colloca la nascita della retorica profana agli inizi  del V secolo a. Ch. a Siracusa, quando, dopo la caduta dei due tiranni Gelone e Jerone, si intentarono parecchie cause per la restituzione ai legittimi proprietari dei terreni a loro sottratti nel periodo della tirannide.  E’ dunque in primo piano fin dall’inizio il genere giudiziario, che rimarrà uno dei campi privilegiati per l’esercizio delle abilità retoriche. Ma in una società come quella greca, dominata dall’organizzazione della polis, anche il genere deliberativo o assembleare non dovette aspettare molto per essere coltivato e insegnato. Con qualche ritardo sui primi due si sviluppò il terzo genere, cioè l’epidittico,  o laudativo, o dimostrativo, con la funzione di tessere le lodi o il biasimo nel confronti di qualcuno. La fioritura di questo terzo genere è dovuta soprattutto ai sofisti, la precettistica dei quali si basava sul seguente principio: il sembrar vero conta più dell’esser vero. I pitagorici introducono la nozione di “opportuno” (kairòs), e Parmenide introduce la nozione fondamentale di doxa (opinione). Ma è indubbiamente merito – o colpa, secondo i punti di vista – di Protagora di Abdera l’aver posto le basi per il successivo e rigoglioso sviluppo della tecnica retorica, dissolvendo il concetto di verità assoluta e affermando l’esistenza di quelle verità relative, soggettive e particolari rappresentate dai fenomeni, cioè dalle apparenze e dalle opinioni: “Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”. Nel quadro di questo fenomenismo totale il concetto di vero si trasforma in quello di verosimile o di probabile: “Come le cose appaiono a me, tali sono per me; come a te, tali sono per te”. In questa prospettiva il  fenomeno possiede dunque una sua verità, anche se contingente e temporanea, verità che può essere negata  da un’altra verità affermata da un’altra persona, o dalla medesima persona in un altro momento secondo le convenienze o il contesto. Di qui l’importanza che assume l’abilità nel contraddire, cioè nel “dire contro”; abilità che Protagora esemplifica e attua nelle sue famose “antilogie”, con le quali dimostra che nessuno può opinare il falso dal momento che ogni questione può essere oggetto di due logoi (ragionamenti) contrari ma entrambi veri. Ora, se l’abilità del retore consistesse soltanto “nel rendere superiore il ragionamento inferiore”, usando tutti quegli artifizi sofistici atti a mistificare e a manipolare la coscienza dell’interlocutore (magari meno abile o meno “sofista”) in modo tale da far prevalere la propria tesi pur essendo nel torto, sarebbe indubbiamente giustificata la connotazione negativa che ancora oggi è rimasta così al termine “sofista” come alla nozione stessa di “retorica”; ma se consideriamo la questione da un altro punto di vista, e cioè dalla posizione di chi ritiene che, almeno nell’ambito dei discorsi umani, non vi sia un’unica ragione degna di prevalere sulle altre ma solo argomenti più o meno fondati e probanti, allora comprendiamo come non ci sia niente di riprovevole nel desiderio di affinare le proprie capacità argomentative  così da riuscire più persuasivi e convincenti negli agoni politici e nel difendere le giuste cause nei tribunali. Ed proprio questa la funzione dell’arte retorica secondo Gorgia da Leontini, il quale dichiara, nell’omonimo dialogo platonico, di intendere per retorica  l’abilità di persuadere per mezzo di discorsi i giudici  in tribunale , i cittadini nei comizi e similmente in ogni occasione  in cui si tratti di conquistare un uditorio. Esemplare, per questo aspetto, il suo Encomio di Elena, il quale più che al genere epidittico – come suggerirebbe il titolo – appartiene al giudiziario; si tratta infatti di un’orazione immaginaria in difesa di quel personaggio mitologico foriero di tanti lutti. In questo discorso troviamo una perorazione sul valore della parola che potrebbe essere ripresa e sottoscritta da un ipnotizzatore mediatico o da un politico incantatore di serpenti, o da un affabulatore pubblicitario dei nostri giorni: “La parola è un potente sovrano che, con un corpo piccolissimo e invisibilissimo, divinissime cose sa portare ad effetto; riesce a calmare la paura, a eliminare il dolore e a suscitare la gioia e a ispirare la pietà…E che la persuasione, congiunta alla parola, riesca a dare all’anima l’impronta che vuole, ce lo insegnano soprattutto i discorsi degli astrononomi, i quali, sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della fantasia l’incredibile e l’incomprensibile; in secondo luogo, le gare oratorie, nelle quali un discorso scritto ad arte, ma non ispirato a verità, suol dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con quale rapidità è possibile far cambiare orientamento al corso dei pensieri. C’è, tra la potenza della parola e la funzione dell’anima, lo stesso rapporto esistente tra i farmaci e la natura del corpo”. Di qui si vede come l’argomentazione di Gorgia verta sul potere evocativo e suggestivo della parola; non per niente chi cade in sua balìa non è più responsabile dello proprie azioni, quindi la responsabilità morale ricade per intero su chi esercita una simile azione narcotizzante. Elena pertanto è del tutto incolpevole perché non era padrona di se stessa quando ubbidì all’invito di Paride; inoltre accanto alla malia della parola che penetra attraverso l’orecchio vi è quella che passa per gli occhi, malia esercitata dai simulacri e dalla bellezza dei corpi. La tecnica di Gorgia è dunque la tecnica del lògos phàrmakon, cioè del discorso come medicamento ma amche come veleno dell’anima; e il suo insegnamento è tutto rivolto alla forma, al potere emotivo e passionale della parola che affascina e trasforma l’anima. La prima critica a questo modo “tecnico” e strumentale dell’uso della parola è quella formulata dall’allievo più prestigioso dello stesso Gorgia, l’ateniese Isocrate (436 – 338 a. Ch.), autore anch’egli  di una difesa di Elena. In questa sua orazione reagisce all’eccesso di tecnicismo, al virtuosismo fine a se stesso in voga tra i Sofisti, e soprattutto alla loro pretesa di costruire discorsi validi di per sé, come se si potessero comporre nello stesso modo meccanico e obbligato con cui si formano le parole con le lettere dell’alfabeto. Secondo Isocrate, invece, i discorsi tanto più sono belli ed efficaci quanto più convengono alle circostanze, tengono conto dell’uditorio, aderiscono alla materia trattata e non seguono stereotipi. Le regole tecniche da sole non bastano: il buon oratore dovrà aver cura della propria reputazione, godere di buona fama e di prestigio presso i suoi concittadini, essere insomma un cittadino virtuoso sotto ogni riguardo, anche quello  culturale e filosofico. Proprio come oggi. O no?