La tenacia della lavoratrici della Tacconi Sud

Maddalena Robustelli 

In un Paese dove solo un anno fa la Mavib licenziava le operaie perché donne, dove sempre più lavoratrici abbandonano il proprio posto dopo il primo figlio, dove le conseguenze della crisi economica si abbattono inesorabilmente sulle donne che sempre più vedono ricadere sulle loro spalle le conseguenze del deficit complessivo delle politiche sociali, la vicenda relativa alle maestranze femminili della Tacconi Sud, in provincia di Latina, riempie la mente di nuove proposte ed il cuore di speranze nuove. Dopo ben 550 giorni di presidio, il più lungo che ricordi la storia del mondo del lavoro in Italia, 29 donne licenziate dal titolare della suddetta impresa, con determinazione e coraggio sono riuscite a consentire che “la loro fabbrica” fosse chiesta in gestione da un nuovo industriale, per riprendere la produzione, interrotta nel dicembre del 2010, ed in tal modo conservare il proprio posto di lavoro. Si sa, quando ricevi all’improvviso una lettera con cui ti viene comunicato che “il padrone chiude l’opificio”, e lo viene dire proprio a te che hai dedicato alla sua azienda ben vent’anni della tua vita lavorativa, perché tanto è il tempo che serve a specializzarsi nel settore di produzione della tua fabbrica, pensi allora che il mondo ti è crollato addosso. Cerchi spiragli per continuare ad andare avanti, vorresti appigliarti all’idea che con la cassa integrazione puoi a provare a guardare al futuro, fintantoché la situazione non si aggiusti. E, invece, no, perché scopri che non sono state avviate neppure le normali procedure per richiedere per te e le tue compagne di lavoro gli ammortizzatori sociali, così tanto per distruggere ogni speranza per il domani più vicino. Di certo pensi che la crisi stritola tutto, non solo le fabbriche, ma anche  le persone, senonchè poi sgorga naturale ed irruente la determinazione di opporti a tale giustificazione fasulla, perché sai con certezza che la Tacconi Sud non è in difficoltà, in quanto ha ancora richieste di suoi prodotti, impegni lavorativi da onorare e commesse da rispettare. E’ il solito bluff di quel tipo di globalizzazione che fa chiudere gli opifici in Italia e d’incanto riaprirli in Romania, Polonia, Serbia o chissà quale altro luogo più conveniente per i titolari delle imprese  che decidono ad arte di delocalizzare le loro  produzioni. Decidi, allora, d’impeto di presidiare il tuo luogo di lavoro, di non abbandonarlo giorno e notte, di evitare con tutte le tue forze, ed anche di più, che i macchinari deperiscano e che altro sia portato via, perché la disperazione ti rende lucida più che mai e ti fa capire che da quel tipo di vigilanza può dipendere la tua vita futura. Certo, è un sacrificio, perché tu lavori e fai la moglie e la madre e sei anche consapevole che la prima vittima di questa decisione sia la tua famiglia. Ti rincuora, però, la convinzione che, avviato con coscienza un cammino, ci sarà pure una meta da  raggiungere e che per te ed i tuoi cari quella meta costituisce il vostro domani. Così, ferma e risoluta, rimani in azienda giorno e notte, suddividendo i turni con le altre operaie, come se fosse una normale fase di produzione. Ti abbatti quando non  vedi  margini positivi nelle trattative a difesa del tuo diritto al lavoro, ma poi ti risollevi e vai avanti quando il tribunale dichiara il fallimento della Tacconi sud. Rimani anche al buio, perché rubano i fili elettrici, ma tanto non c’è paragone al buio pesto della disperazione. Iniziano finalmente le mediazioni con un imprenditore che, venuto a visionare lo stato dei macchinari, l’esperienza delle maestranze e le condizioni di agibilità del capannone industriale, decide di iniziare a produrre con un nuovo marchio quello in cui tu sei brava. Arriva, così, l’altro giorno, quello in cui con un gesto simbolico, davanti alle telecamere, deponi insieme alle altre le chiavi della fabbrica su di un’ordinaria scrivania con straordinaria fermezza e soddisfazione. Le hai messe lì per farci capire  che la tua battaglia è finita, ma sappi che il rumore di quel tintinnio è vivo e sonante per tutte le altre donne che si sono trovate  nelle tue stesse condizioni e che continuano a difendere strenuamente il loro posto di lavoro. Il tuo nome è Rosa, ma le altre ti chiamano “capitano”, perché le hai guidate in questa impresa titanica con coraggio e determinazione. Hai definito la mobilitazione a difesa della “tua fabbrica” un’assemblea permanente e non un’occupazione, quasi a voler sottolineare che il primo termine evoca una forza collettiva, quella giusta ed opportuna per continuare nella  tua rivendicazione. Adesso, che hai raggiunto insieme alle altre compagne di lavoro l’obiettivo sperato, fermati e riposati con loro per il tempo necessario a riprendervi e ricominciare nell’impegno di una  nuova produzione. Siamo fiere di voi, di quel che avete conquistato e di quel che rappresentate agli occhi dell’intero Paese. Buon lavoro a tutte voi, un augurio sentito nella mente e nel cuore di quante/i vi sono stati idealmente vicine/i e da chi vi ha conosciuto e apprezzato solo l’altro giorno grazie ad un reportage televisivo di pochi minuti, ma pieno della fatica dei 550 giorni della vostra mobilitazione.