Dalla porno-grafia alla porno-Sofia

Fulvio Sguerso

(Un vano tentativo di dissuadere una giovane donna bella e molto intelligente dal perdersi credendo di trovarsi). Pornografia, di per sé, significa scrittura o disegno che riguarda le prostitute; ma il termine ormai viene usato per tutte quelle descrizioni e rappresentazioni dove il sesso, nella sua esibita nudità e nelle sue versioni più o meno canoniche è, per così dire,  unico soggetto-oggetto sulla scena. Tanto che ormai il termine si è talmente esteso da comprendere, oltre a quelle tradizionali pubblicazioni e a quegli opuscoli da vendere e da acquistare di nascosto ( sous le manteau) anche tutti quei prodotti o spettacoli o mestieri o attività la cui denominazione è una parola composta da “porno” più sostantivo: film, video, cassetta, rivista, stampa, fumetto, locale, shop, show, sito e – ovviamente – attore, attrice, divo, diva, star, regista, produttore, ecc. Basterebbe questo nudo elenco lessicale a segnalare le proporzioni  del fenomeno e il giro di affari connesso alla produzione, al consumo e alla diffusione del materiale pornografico. Anche in questo, come negli altri ambiti della vita sociale, a dettare legge è il mercato: in altri termini, piaccia o non piaccia, la pornografia, da prodotto di nicchia quale era dai primordi del cinema  fino alla metà circa del secolo scorso, è diventata anch’essa un oggetto di consumo di massa. In un certo senso, per merito – o per colpa, secondo i punti di vista – del progressivo espandersi dei nuovi mezzi di comunicazione e trasmissione delle immagini – si è come democraticizzata. Oggi, chi decidesse di guardarsi un filmino hardcore (come si dice in gergo), non ha nemmeno l’incomodo di uscire di casa per raggiungere uno di quei cinemini malfamati e non tanto ben frequentati – a meno che non volesse andarci apposta! – che, fino a non molti anni fa  rappresentavano il  mezzo più comune per la distribuzione e la fruizione (si fa per dire) di pellicole “solo per adulti”. Ricordo come, nei piccoli centri di provincia dove tutti si conoscono, passando davanti a uno di quei cinemini, i più allungavano il passo per non destare sospetti…Ora invece basta possedere un computer e saper navigare in Internet per soddisfare in privato e lontani, come si suol dire, da occhi indiscreti, eventuali pulsioni scopofiliache: i siti pornografici si sprecano; ma se si sprecano vuol dire che c’è una grande richiesta, e, se c’è una grande richiesta di pornografia, sarà pur necessario che qualcuno si incarichi di soddisfarla (lasciamo ora tra parentesi la questione se è la domanda  a far sì che ci sia l’offerta o viceversa, accontentiamoci di constatare che non manca né l’una né l’altra). Qualcuno e qualcuna, dal momento che per certi esercizi, o giochi d’incastro, ci vuole così il concavo come il convesso (cfr. M. C. Escher, Concavo e convesso, 1955); ecco dunque la prestazione d’opera dei pornoattori e delle pornoattrici; nessuno creda che si tratti di prestazioni, diciamo così, alla portata di chiunque: ci vuole, oltre a  una notevole capacità di resilienza, quella che in altri contesti si chiama vocazione. Ed è infatti per vocazione – sia pure calcolata –  non per altro, che Valentina Nappi, 21 anni, recentemente intervistata da Luisella Costamagna a “Robinson” su Rai3,  ha deciso di fare quello che fa, cioè la pornoattrice. Lo spiega lei stessa meglio di chiunque altro al blogger Solferino, 28 anni, sul Corriere.it: “Dicembre 2009. Girona. Pomeriggio. Taxi per Roses. Cala Montjoi, ristorante El Bulli. Inizio della cena. Urto frontale con le emozioni più potenti che una pratica umana contemporanea possa procurare. E’ l’inizio, per me, di un filone d’evoluzione cruciale, che mi porterà ad essere la giovane donna che sono, fieramente votata a un’attività la cui rilevanza è ingiustamente misconosciuta o fraintesa: la pornografia”. Questo si chiama avere le idee chiare e tirare diritto per la propria strada senza lasciarsi irretire da scrupoli meschini o da dubbi volgarmente moralistici. Ma perché quella cena, quell’”urto frontale” addirittura “con le emozioni più potenti che una pratica umana contemporanea possa procurare”, è stata così decisiva? Ecco: “Si parte da qui: da El Bulli, da Ferran Adrià. Mai avevo pensato che della ‘roba da mangiare’ potesse dare tanto. Eppure non avevo una concezione ‘idealistica’ delle gerarchie estetiche: già detestavo il razzismo culturale da liceo classico deteriore, amavo l’artigianato, non mancavo mai di sottolineare i contenuti cognitivi della tecnica sartoriale o gli aspetti tutt’altro che ‘modaioli’ di certa moda (Mc Qeen, ad esempio), che tra l’altro era il mio interesse principale. Ma la moda è pur sempre legata al linguaggio visivo-plastico-topologico-funzionale proprio dell’architettura e del design, e in fondo non è difficile riconoscerne il valore. Invece per la cucina il discorso è diverso, perché i sensi del gusto e dell’olfatto sembrano avere a che fare con la sfera pulsionale  – e quindi più primitiva, meno ‘nobile’, o comunque meno ‘astratta’ e complessa – dell’umano. Ebbene, il pregiudizio appena enunciato è stato magistralmente decostruito – non con i mezzi della filosofia ma con quelli della poiesi, del fare, dell’effettivo realizzare – dal genio di Ferran Adrià”. Per ora Valentina ci ha raccontato del suo stupore per le sensazioni profonde che un certo cibo le ha fatto provare, e ci ha anche detto che il suo interesse era la tecnica sartoriale, l’alta moda con i suoi aspetti creativi; quindi, per ora, potremmo pensare che i suoi interessi si fossero spostati dalla sartoria  agli aspetti creativi e artistici dell’alta cucina del grande chef Ferran Adrià, spostamento dovuto al “fare” artistico del cuoco, non a qualche ragionamento “filosofico” (come se richiamarsi alla Poetica aristotelica, sia pure implicitamente, non fosse  anch’esso un gesto  filosofico!). Infatti  Valentina continua così il suo discorso : “Non amo il decostruzionismo di maniera. Amo invece le decostruzioni quando sono ‘potenti’, cioè supportata da necessità forti e dotate di conseguenze feconde, come ad esempio la decostruzione dei concetti kantiani di spazio e di tempo ad opera di Einstein, la decostruzione della semantica referenziale della pittura ad opera di Kandinskij o la decostruzione dei pregiudizi (tardo)romantici circa la non esteticità della fotografia ad opera della Photo Secession. Al pari di queste ultime – al di là delle ovvie differenze – anche quella operata da Adrià è stata una decostruzione ‘potente’, che è derivata da necessità ‘logiche’ e poietiche inderogabili”. Benissimo! Allora perché Valentina non ha deciso di dedicarsi anima e corpo all’alta cucina? A questo punto avviene un passaggio, o meglio, un salto, a rigor di logica incomprensibile: “Mi sono chiesta perché non anche nella pornografia un fermento analogo?”. E perché mai Valentina si pone questa domanda? Da dove salta fuori la pornografia? Non certo dalla pietanza, per quanto afrodisiaca potesse essere, preparatagli da Adrià! Da quella pietanza poteva venirle, tuttalpiù, il desiderio di abbracciare il cuoco e di tornare presto a gustare i suoi  piatti superlativi (alla cui “bontà” contribuisce, come sanno bene i grandi cuochi, anche il senso della vista!), o, romantica o meno che fosse quella cenetta,

il desiderio di concluderla degnamente con un amplesso con il fidanzato (o con chi per lui). Che c’entra la pornografia? Valentina lo spiega così: “Certo, c’è una differenza non da poco. Infatti uno sdoganamento vero – cosa ben diversa dalla semplice legittimazione – della pornografia – legata essa com’è alla sfera sessuale, la quale ha un’enorme problematicità nelle sue implicazioni emozionali e sociali – pone necessità decostruttive ancor più ardue da far accettare come plausibili”. Direi proprio di sì; ma allora, Valentina,  che cosa ti spinge a questa alta e ardua impresa? E beh: “C’è il problema del diffuso riconoscimento del disvalore (umano, emozionale) di una sessualità a carattere non privato e non dilettantesco”. Valentina, Valentina, ti rendi conto di quello che vai sostenendo? Vorresti sottrarre la sessualità alla sfera dell’intimità e del libero diletto privato per consegnarla a dei manager del sesso? Non è che tu stia cercando di giustificare la tua scelta di vita con motivazioni pseudoscientifiche? Tu dici: “E’ un po’ come se si dicesse che la vera cucina è quella che si fa per le persone che si amano, mentre la cucina professionale  destinata a un pubblico di estranei è un’aberrazione umana e professionale – e non semplicemente una cosa diversa?” Dunque torniamo all’analogia tra la cenetta romantica al ristorante e la pornografia? Ma è proprio qui l’anello che non tiene nel tuo ragionamento: le cenette romantiche al Gambero Rosso o dove tu vuoi (tantomeno quelle mistiche!) non sono (prezzo a parte) pornografiche! Nondimeno tu insisti: “E’ davvero così vincolante tale percezione dei rapporti tra sfera sessuale e socialità, da delegittimare qualsiasi forma di artigianato del piacere sessuale (procurato ‘live’ – o in maniera mediata come nel caso della pornografia) a carattere non privato e non dilettantesco?”. (Com’è carino e pudico quel “live”!) Sì, è vincolante, se l’”artigianato” a cui alludi dipende da “artigiani” diversi dai legittimi proprietari degli “attrezzi” del piacere sessuale. Tu chiedi: “E’ possibile un artigianato fine del piacere sessuale, o basta saziare degli affamati? E’ possibile una tekne del piacere sessuale (‘live’ – o mediata) che stia alla sessualità di coppia come la cucina del grande chef sta alla cucina della mamma?”. A parte il fatto che  la cucina della mamma può non essere inferiore a quello del grande chef, tu vorresti estendere il dominio della tekne alla sessualità, denaturalizzando l’ultimo rifugio della natura? Forse qualche dubbio ancora persiste in un cantuccio remoto della tua coscienza se ti chiedi con una certa enfasi: “E’ un delirio, il mio? O forse è solo un sogno ‘ridicolo’? Sono forse una donna non ‘autentica’’ E qual è la vera donna? Non c’è qualcosa di nazista in certi appelli al ‘vero’ e all’’autentico’? “. Dipende da che cosa s’intende per “vero” e per “autentico”, certamente non è nazista l’appello a non alienare la propria dignità, il proprio pudore, la propria intelligenza  per una manciata di lenticchie e di un quarto d’ora di celebrità. “Il mio sogno di giovane donna che fa la pornografia è di riuscire ad avere la meglio sui vari nazismi che da sempre hanno provato – ridicolizzando, diffamando, sminuendo – a tarpare  le ali di ciò che è ‘degenerato’”. Valentina, ascoltami, se puoi: il tuo sogno di giovane donna non si realizzerà certo consegnandoti nelle mani di “tecnici” o “ingegneri” del sesso che ti useranno come una macchina, come un robot telecomandato, per piegarti a fare cose da te non veramente e intimamente desiderate, o per farti credere che sei tu a volerle mentre non farai che eseguire la loro miserabile  volontà.