Vogliamo parlare di lavoro?

Giovanna Rezzoagli

Oggi, tornando a casa dal lavoro, ho casualmente acceso l’autoradio su Radiodue che, giusto alle tredici, trasmette il radio giornale. Ognuno ha le proprie abitudini, se si preferisce chiamiamoli pure rituali: io quando sono giù di morale  in auto accendo la radio, quando sopravvivo mi concedo un paio di canzoni da un cd. Oggi, forse proprio perché è il primo maggio, l’autoradio si imponeva. Per essere masochista fino in fondo, non a caso ho scelto un notiziario, e sono stata onorata dall’udire direttamente dalla voce del Ministro Elsa Fornero questa dichiarazione “Oggi è un primo maggio triste perché non c’è lavoro”. Che dire, pensiero arguto e profondo, un tantino lapalissiano forse, ma via, nessuno è perfetto. Che il lavoro manchi lo testimoniano le tante persone che, preda della disperazione più nera, si tolgono la vita, ma questo è solo un dettaglio. Ma siamo sicuri che questo primo maggio sia triste perché non c’è lavoro?  Istintivamente, quando ho ascoltato questa frase, mi è sorto un pensiero che, forse può essere uno spunto di riflessione anche per altri. Io mi sono detta che questo primo maggio è triste perché non abbiamo, meglio, io non ho, più la speranza in un futuro lavorativo. Quando ero bambina, ma anche quando frequentavo il liceo, (e non proprio un secolo fa visto che ho trentotto anni), era normale, quasi una cortesia dovuta, sentirsi chiedere “Cosa vuoi fare da grande?”. All’epoca era scontato che da grandi si avrebbe trovato un lavoro, casomai il dubbio era su quale lavoro. Oggi è già un lusso averne uno, per quanto modesto. Specialmente se si ha attraversato il tunnel della disoccupazione. Io ci sono finita, o meglio, mi ci hanno scaraventato, quattro anni fa, in sette giorni sette. Dalla relativa tranquillità di un lavoro con contratto a tempo indeterminato, mi sono ritrovata sottoposta alla pratica di licenziamento collettivo insieme ad altri otto colleghi. Eh sì, eravamo in nove a tirare avanti la baracca di una casa di riposo gestita da un ricco uomo politico, e la tiravamo avanti decentemente. Certo, alcune velleità come le ferie decise autonomamente o turni inframmezzati da un giorno di riposo per noi erano, per l’appunto, velleità. Però i nostri settecento euro al mese per assistere mediamente venticinque persone sei giorni su sette, li guadagnavamo e arrivavano puntuali il dieci di ogni mese. Poi, di punto in bianco, il giocattolo deve avere stufato, e la casa di bambole è stata chiusa senza troppi scrupoli e, ma trovo quasi pleonastico sottolinearlo, tutto è avvenuto nella più totale indifferenza dei sindacati. Sì, proprio quelli che oggi si riempiono la bocca di diritti calpestati e via discorrendo. Siamo sempre alle solite: diritti si, dipende quali e di chi. Ormai di acqua sotto i pochi ponti di riviera ne è passata parecchia, tuttavia mi ricordo benissimo quando, per puro caso ho scoperto che avrei perso il lavoro nel giro di una settimana. Il caso volle che fossi io a prendere una telefonata sul luogo di lavoro, e che, sempre per puro caso, la persona all’altro capo del telefono mi abbia scambiato per la segretaria della struttura, lasciandosi scappare una frase sull’imminente chiusura prima di accorgersi dell’errore. Messo alle strette il mio ex datore di lavoro non poté negare e la verità venne fuori. Il senso di vertigine che ho provato non lo dimenticherò mai. Oggi, precaria come pochi, nel senso che il mio attuale impiego durerà fino a che sarà in vita la persona di cui mi prendo cura, rifletto che io fortunata lo sono, e tanto. Certo, fortunata ad avere un lavoro che in tanti, fino a poco tempo fa, avrebbero sdegnosamente rifiutato. Ma soprattutto fortunata perché non mi sono mai vergognata di svolgere un lavoro univocamente considerato umile e ben poco qualificante, particolarmente da chi lo svolge. Ricordo ancora una mia collega che mi apostrofò, il mio primo giorno di lavoro, chiedendomi come mai una diplomata quale ero non lavorasse in comune o in banca. Anche se ero giovane, la prontezza di spirito per rispondere che non avevo nessuno a raccomandarmi la ho trovata, ed in effetti questa era la verità. Stessa verità che mi vede, vent’anni dopo, ad avere un diploma in più, quello in Counseling, e pari prospettive, pardon, speranze: zero. Come me, chissà quanti. Eh no, caro Ministro Fornero, questo primo maggio non è triste perché non c’è lavoro, non solo almeno. E’ triste perché non c’è la minima speranza di migliorare o di cambiare in meglio, fatto salvo il discorso “raccomandazione” di prima. Eppure, io mi considero lo stesso fortunata, perché la mia dignità personale non è mai scesa a compromesso alcuno. E mi considero fortunata anche perché, anche questo primo maggio, lavoro: d’altronde, le malattie ed i malati non vanno mai in vacanza…

5 pensieri su “Vogliamo parlare di lavoro?

  1. Esposizioni di fatti veri , come questi che ci racconta la nostra cara Dr Giovanna , fanno riflettere e capire fino a dove può condurre una persona meritevole una situazione sociale che offende e deprime fino al precordio dell’anima. Io la capisco fino in fondo , cara amica dr Giovanna, e condivido che , talvolta , alcuni lavori di responsabilità finiscono nelle mani di chi è totalmente impreparato , mentre chi davvero ha le qualità , l’esperienza e la cultura, finisce a fare disoccupato per l’intera esistenza.. Anch’io ne so qualcosa e sono rimasto al palo per tutta la vita. Ora ho ottant’anni e rimpiango ciò che non ho avuto e che , nei confronti di alcuni, meritavo un lavoro che non ho mai avuto, anche se ho sempre lavorato facendo , grosso modo, il facchino. Ma lei è ancora giovane ed avrà un futuro decisamente diverso e all’altezza delle sue capacità culturali e di esperienze di vita. Allora , non può che aspettarsi un futuro radioso , onorevole e redditizio. Abbi fede.
    Un sincero, cordiale abbraccio , Alfredo

  2. Qui c’è una persona con titoli, che immagino abbia studiato in una buona scuola di Counselling lavorando, che dai suoi scritti dimostra una sensibilità ai problemi individuali in un con testo sociale e a cui la società ha dato un pugno di mosche. Come ha reagito? non salendo sui tetti, non andando ai cortei in piazza, ma accontentandosi di un lavoro che solo extracomunitari accettano. Il contrasto è dato dall’esistenza alla reception di un ospedale di una signorina che parla con disinvoltura con qualcuno al suo telefonino, che sa battere sulla tastiera (dopo aver finito la sua telefonata personale) usando due sole dita. L’Italia dei privilegi resiste, resiste, resiste.
    Va distrutta senza chiedersi come ricostruirla dopo.

  3. Carissimo Alfredo, intanto ricambio l’abbraccio con tutto il mio affetto. Quanta amarezza traspare dalle sue parole…
    immagino quanto dura sia stata, e sia la sua vita, come si evince leggendo la sua autobiografia. Io non mi aspetto nulla, ma non per questo smetto di studiare o di aggiornarmi. E con questo mi riallaccio al commento di Corinna. Io dalla società non mi aspetto un bel nulla, ma sono altresì contenta di non dover piegare la testa di fronte a nessuno. Testarda e utopista come sono, l’ultima cosa che vorrei è dover essere nelle condizioni di sentirmi schiava di qualcuno. Nessun debito nella mia vita, ne morale ne materiale. Forse qualche credito morale, qualcuno materiale, questo si. Io se fossi nella signorina che descrive, scema come sono, mi sentirei a disagio. A dirla tutta, col senno di poi l’idea di salire sul tetto non sarebbe neanche stata malvagia, ma a che sarebbe servito? Che l’Italia dei privilegi vada distrutta è un pensiero che condivido, certo, ma a suon di denunciare, riflettere, spronare. A volte sembra di vivere in un Paese di gente con le fette di salame sugli occhi, tanto si lascia prendere in giro da questo o quello. Bisogna ragionare con la propria testa e denunciare, riflettere, rompere su ciò che non si condivide. Ecco quello che manca all’Italiano: ragionare con la propria testa. Questo mi spaventa della società di oggi, e che mi fa arrovellare, e non poco, su cosa fare tra tre anni quando mio figlio finirà il liceo. In questo momento l’idea di trasferirci all’estero è la più gettonata… forse, caro Alfredo, chissà, gli States?
    Grazie per i commenti.
    g.

  4. A costo di ripetermi, articolo denso e coinvolgente. Questa volta non ho dubbi però: so che la verità è questa. Tanto di cappello, signora.

  5. Di nuovo la ringrazio, Signor Marco. La verità, che Lei immagino usi come sinonimo di realtà, è questa. Nuda e cruda. Ma esiste un vantaggio nel rendersene conto: ci si sente liberi.Sembrerà poco, ma essere liberi nel pensiero è uno dei più grandi privilegi, a mio parere, di cui un essere umano possa godere.
    Sempre cordialmente.
    Giovanna Rezzoagli Ganci

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