Mtoto, bambino

Padre Oliviero Ferro

Dire “bambino” in africa vuol dire: gioia, tenerezza, furbizia, sapersi arrangiare, danza, bellezza…Gli aggettivi sarebbero tanti, ma cominciamo, di nuovo da capo. Quando arrivi, come è capitato a me, sulle rive del lago Tanganika, nel Congo Rd, la prima cosa che vedi sono i bambini. Ti circondano, ti vogliono toccare e fanno i loro commenti. Po, quando tu cominci a balbettare qualche parola nella loro lingua, allora li senti ridere di gusto. Insomma questo bianco che vuole parlare con loro e balbetta. Poi, si fanno un pochino seri, ci guardano in faccia e ci fanno capire che così non va. Bisogna a mettersi a studiare. Ci si siede sul muretto della missione e ti si mettono intorno. Allora sei tu che fai il bambino della prima elementare che comincia a imparare l’alfabeto e loro sono dei maestri esigenti, ma simpatici. E così, piano piano, impari la lingua. Ma soprattutto impari a conoscere che, come diceva Gesù, bisogna farsi bambino per entrare nel regno dei cieli. E se non hai paura, ma fiducia in loro, velocemente impari a parlare. Insomma è fatta. Ti sei conquistato la loro fiducia (magari se gli allunghi qualche caramella, ti diranno grazie) e con loro vai alla scoperta del villaggio, delle persone, della vita. E saranno sempre i primi che ti forniranno le notizie. Con loro andrai a trovare le persone anziane, gli ammalati. Magari ti inviteranno a scendere in spiaggia ad aspettare i pescatori che vengono da una notte di pesca. Qualcuno ti chiederà di nuotare con loro. Ma, io purtroppo, non ho mai imparato. Mi hanno raccontato che tanti anni fa c’era un vescovo che non si creava dei problemi a nuotare con loro, tanto che lo chiamavano “ippopotamo bianco”. Guardando nei loro occhioni profondi, vedi tutta la storia dell’Africa: passato, presente e, forse, il futuro. Quando giri nel villaggio e li vedi soli a giocare con i giocattoli che hanno costruito, con il bambù, con le bottiglie di plastica, con le scatole di sardine o con il fil di ferro, ti stupisci della loro fantasia. Ma, il vederli ammalati, che piangono per la fame, ti fanno tanta pena. Poi, quando sei invitato a pranzo dai genitori, sei tu il primo che mangia. Vorresti condividere un po’ con loro, ma non si può. Il bambino deve essere sempre l’ultimo. Allora, girando intorno alla casa, li vedi tutti in cerchio, vicino a un vassoio, dove ciascuno intinge la sua mano per prender un po’ di riso o di manioca. Non è molto, ma per loro è bello condividere. Poi, quando li vedi al mattino che passano davanti alla casa parrocchiale, anche quelli della scuola materna, per essere presenti dalle 7 del mattino fino alle 15, ti chiedi come faranno a resistere tante ore. I più grandi accompagnano i più piccoli con la loro borsetta a tracolla. Avranno fatto colazione? La risposta, purtroppo, è sempre la solita. L’hanno vista solo in sogno. A metà mattina, compereranno qualcosa: un pezzo di pane con la pasta, una banani, delle arachidi tostate o delle caramelle e le condivideranno con gli amici. Mi faceva sempre piacere andarli a trovare nella scuola parrocchiale, in quelle aule con molta luce. Senza pavimento in cemento, con le porte “girevoli”, con il tetto in lamiere che quando pioveva faceva un rumore assordante, tutti schiacciati nei banchetti. Almeno 60-70 per classe e con la maestra che doveva alzare la voce per farsi sentire. Ma quanta voglia di imparare, di scrivere sui quaderni quello che la maestra scriveva alla lavagna, di ripetere in coro le tabelline o le frasi . Se poi, qualcuno era venuto a regalarci qualche bon bon, caramella, era bello portarglieli. Quanti gridolini di gioia. Ti dicevano un grazie che ti rimaneva nelle orecchie per giorni e giorni e ti riscaldava il cuore. Se poi, un bambino moriva per la fame, per la malaria o perché erano troppi da seguire nella famiglia, era un fiore che appassiva e sicuramente diventava un angioletto lassù nel cielo. I bambini, come in tutto il mondo, hanno bisogno del nostro amore. Non possiamo solo piangere per loro, dar loro da mangiare. Sono come noi. Un passerotto che vuole volare libero nel cielo insieme a tanti altri e che ci fa sentire il suo canto allegro che dà “furaha”, gioia al tuo cuore.