Comprare per gestire Paestum

Aurelio Di Matteo

Fuori dei nostri confini è nozione acquisita da tempo e pratica consolidata e realizzata in modo diffuso una diversa politica di valorizzazione del patrimonio culturale. Essa si concretizza con una gestione che favorisce l’apertura dei luoghi culturali al vasto pubblico, ampliando la ristretta cerchia dei frequentatori “esperti” attraverso l’offerta di strutture e opportunità di accoglienza che in sé appaiono incompatibili con l’offerta culturale che tipizza quel determinato luogo di cultura. Se la preoccupazione della gestione di un Museo, di un complesso monumentale o di un’area archeologica è stata sempre quella di dare una risposta alla domanda di “conservare” il patrimonio culturale, è ormai tempo di modificare domanda e risposta. Il problema vero non è nella conservazione ma nella valorizzazione, che a sua volta va motivata e finalizzata. Insomma, una gestione innovativa che abbia a cuore un patrimonio culturale deve cominciare dal rispondere a due semplici interrogativi: per quale motivo e per chi questo patrimonio va valorizzato? Lucio Capo, che lodevolmente sulle pagine di Unico ha portato all’attenzione la grave situazione dell’area archeologica di Paestum, per metà lasciata all’incuria, al degrado e al mercimonio del “particulare”, e per l’altra metà ancora nascosta, violentata e depredata, avrebbe ragione a dire: qui prima della valorizzazione del patrimonio è necessario riappropriarsene e scoprirlo! Ma i due interrogativi resterebbero pur sempre fondamentali e propedeutici, soprattutto con riferimento alla parte di pubblica proprietà. E a dire che il Ministero dei Beni Culturali è consapevole degli elementi che possono qualificare l’offerta sia dei Musei sia delle aree archeologiche. Dalle ricerche promosse proprio dal Ministero dal 2000 al 2007, rivolte a monitorare la situazione di 158 musei storico-artistici e archeologici statali per rilevare necessità, esigenze e interventi per migliorare la valorizzazione e l’attrattività, sono emerse con chiarezza le criticità e le carenze, tutte legate alle condizioni di accoglienza, al confort delle visite, all’assenza d’interattività tra i contenuti culturali e la fruibilità dei visitatori, soprattutto se appartenenti al largo pubblico. Dalla stessa relazione che accompagna l’indagine è chiaramente rilevata la quasi assoluta mancanza di attenzione alle esigenze dei giovani, alle famiglie e agli anziani: ”Mancanza d’interesse che si manifesta sia nella quasi totale inesistenza di servizi per i piccoli sia nella diffusione di percorsi studiati ad hoc per i bambini”. Nonostante queste risultanze la situazione resta immutata. Si ha l’impressione che per i preposti alla gestione di Musei, aree archeologiche e beni culturali le ricerche servano solo a impiegare risorse per convenzioni e consulenze, mai per attivare metodi di gestione e interventi di organizzazione innovativi o elaborare moderni progetti di fruibilità e di attrazione. Basterebbe fare un giro nel Nord Europa o negli Stati Uniti per costatare che una diversa gestione ha trasformato il patrimonio artistico, Musei in particolare, non solo in luoghi di diffusione della cultura ma in attrattori del tempo libero e in risorsa economica. Nonostante la grave crisi economica, da noi si continua con il lamento della mancanza di risorse e con la loro richiesta allo Stato, considerando ancora i beni culturali un capitolo di spesa e non un’opportunità di autofinanziamento. Se in alcuni rari casi il Museo o le aree archeologiche si “aprono alla società”, lo si fa con qualche evento spettacolare che non fa né cultura né profitto, ma nel migliore dei casi è solo un’occasione d’incontro mondano e di passerella politica. Occorre, invece, con formula giuridica diversa (Azionariato sociale, Fondazione di diritto privato, ecc.) inserire nella gestione una rete di attività imprenditoriale con l’obiettivo sia della conservazione sia della valorizzazione, attivando una filiera di iniziative che attraverso la centralità del bene culturale coinvolga il territorio che lo circonda. Si tratta di creare un legame concreto tra il mondo della cultura e quello dell’economia rivolto all’autofinanziamento. Ciò comporta, nel nostro caso, l’espulsione degli attuali legami rivolti soltanto all’economia del “particulare” e non a quella generale del patrimonio culturale e del territorio. Ma non credo che un simile obiettivo possa costituire il capitolo di un qualsiasi programma per l’imminente tornata elettorale. Né credo che sia in cima ai pensieri di un qualche amministratore, passato e futuro, la prospettiva che l’Ente comunale possa aderire al Progetto di Legambiente, preferendo, invece, impegnare somme considerevoli per incolti e inutili spettacoli estivi, per contributi a sagre di salsicce e porchette o per sonnolenti e canuti Consigli di Amministrazione di società partecipate, anziché per togliere dal degrado e acquisire progressivamente un patrimonio che l’intera umanità ci invidia. Il livello politico di una comunità si misura anche da questo. E meno male che la società civile, quella vera che non sarà presente nell’ammucchiata di liste, continua ancora ad esistere, a pensare e a parlare. Lo dimostra il meritorio progetto di Legambiente, al quale avrebbero dovuto prioritariamente aderire proprio gli Enti locali territoriali, i loro rappresentanti attuali e quelli che aspirano ad esserlo.