Legalità, cultura e unità nazionale

Con migliaia di studenti, arrivati da ogni parte d’Italia, nel ricordo dei magistrati Falcone e Borsellino si è svolta, qualche giorno fa, a Palermo, la <<giornata della legalità>>. Già, proprio loro, gli “ingenui” studenti italiani, sono stati nominati dalla sorella di Giovanni Falcone, Maria, <<ambasciatori della legalità>>, mentre vari sono stati gli slogan che li hanno accompagnati nel corso della giornata: da <<chi non salta è mafioso>> alla canzone <<Cento Passi>> (ispirata alla storia di Peppino Impastato>>, dal <<non li avete uccisi>> all’ormai scontato, in queste seriose manifestazioni, <<viva l’Italia>>. Un vero e proprio omaggio, dunque, non solo ai giudici trucidati dalla mafia, ma soprattutto all’Italia, in nome della legalità, perché quanto accaduto non si ripeta. Mai più. Proprio loro, gli ardimentosi e infervorati discenti italiani si sono fatti <<ambasciatori>> non solo della legalità, ma, seppure inconsciamente, di quel pensiero storico-politico italiano che nei concetti di <<Nazione>> e <<Stato>> ha ritrovato, nel corso dei secoli, i suoi elementi fondamentali. Dal Rinascimento, con il Segretario fiorentino che diede il via alle discussioni sulla politica, che si fece portavoce supremo del principio della politica in quanto politica, al di là di ogni presupposto o “fine” morale e teologico; che condannò aspramente la consuetudine italiana di assoldare truppe mercenarie e che verrà ricordato (quale vero antesignano della teoria della Ragion di Stato) dall’autore dell’Ortis come <<quel grande / Che temprando lo scettro a’ regnatori,/ Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/ Di che lagrime grondi e di che sangue/ […]>>. Cosa ne sanno, loro, i giovani accaldati e chiassosi sotto un sole battente di quell’Alfieri “storico” che contribuì a creare la coscienza politica degli Italiani, concorrendo, in tal maniera, alla rinascita dello spirito nazionale. Colui, in altri termini, che risvegliò nell’intera Nazione le antiche virtù civiche e il desiderio della libertà, frutto dell’amore verso la Patria e dell’odio contro i “tiranni” e gli “oppressori” di ogni tempo. Sicché Papini, qualche secolo dopo, evidenziava come <<da quell’Italia che cantava le ariette dell’Arcadia>> fosse nata, principalmente per opera di Alfieri, l’Italia dell’inno di Mameli e del Primato del Gioberti, insieme con la nostra lirica patriottica, dal Leopardi al Carducci. Che dire, poi, del <<volgo disperso che nome non ha>> di manzoniana memoria, o  della Nazione italiana che al poeta di Recanati sembrò, allegoricamente,  formosissima donna <<fatta inerme, nuda la fronte e nudo il petto>>; mentre lui stesso chiedeva al cielo e al mondo <<dite, dite; chi la ridusse a tale>>? Si consideri il Meminisse horret carducciano, lì dove l’animo del poeta inorridisce al ricordo dei fatti tragici di Villagloria, Monterotondo e Mentana e dell’arresto di Garibaldi, tragica conclusione dell’impresa garibaldina per la conquista di Roma. Dante, vestito da buffone, in Santa Croce apre le porte agli stranieri che fanno da padroni in Italia, il Segretario fiorentino è introdotto in veste di ruffiano mentre <<offre>> a un visitatore la “madre” (l’Italia) che  <<Su ’l  gran Campidoglio si scigne le gonne/ E nuda su l’urna di Scipio (sulle tombe dei suoi eroici figli) si dà>>. Un lungo percorso storico-politico, dunque, che da Petrarca a Machiavelli, da Leopardi a Carducci, a Pascoli (La grande Proletaria s’è mossa), tocca da vicino alcune tematiche fondamentali della nostra storia letteraria, primo fra tutti quello della “Nazione” e della sua irreprensibile amministrazione da parte dei governanti. Non è per niente comprensibile, quindi, l’asserzione di qualche giovane ministro, secondo cui è sconsigliabile discutere di “politica” nelle scuole italiane, quando, invece, lo studio della letteratura italiana (quello vero, ovviamente) dovrebbe fondarsi prevalentemente su  problematiche e questioni inerenti il pensiero civile e, soprattutto, politico dei nostri padri.  Per non parlare del capolavoro di Carlo Levi, quel Cristo si è fermato a Eboli con cui si posero le premesse fondamentali per l’analisi di un problema davvero serioso, quello meridionale; e non solo come episodio di una condizione secolare di povertà e miseria sociale, politica e culturale, ma anche e soprattutto come teatro di un meccanismo politico-clientelare che, fino ad oggi, ha visto, oltre la politica, la cultura, il pensiero e la storia  sottomessi alle latenti logge massoniche del nostro tempo. I giovani, quindi, inneggino pure all’Italia, alla loro grande Nazione; ma con lo spirito di chi un giorno dovrà essere vero cittadino italiano, permeato di quegli insegnamenti e di quei principi fondamentali provenienti solo e soltanto dal nostro passato e dalla nostra grande tradizione storica e letteraria; rassegnandosi, tuttavia, a <<sopravvivere appesi al filo del precariato e del lavoro sommerso, in un contesto generale  di illegalità diffusa>>: illegalità nelle Università, nella Scuola, nei concorsi truccati banditi non tanto per chi merita, quanto, invece, per i “figliocci” e gli “amici” del potente di turno. Vico, nella Scientia Nova, ritornò frequentemente sui temi del corrompersi della ragione e della nuova “barbarie” (il bellum omnium contra omnes di Hobbes) che si riapre al termine del corso della civiltà e che  si manifesta come un regresso, un dissolversi della vita civile e intellettuale. Ma in questo processo di decadenza e di “imbarbarimento” della cultura e della società, l’illuminista, all’alba del secolo della Ragione, scorgeva, oltre al segnacolo primo della provvidenza, un motivo di speranza; giacché tale barbarie altro non rappresentava se non i primordi di un nuovo e grandioso ciclo di incivilimento sociale e culturale. Cosa, questa, che noi tutti a questo punto ci auguriamo; perché dalle tenebre e dall’imbarbarimento civile e culturale dei nostri giorni, si possa presagire l’alba del nuovo millennio, per i giulivi e festanti giovani del nostro secolo.

Prof. Giovanni Lovito