Religione cattolica partecipa al credito scolastico

  REPUBBLICA ITALIA NA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 7324 del 2009, proposto da:Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;

contro Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, Comitato

Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei), Federazione delle Chiese

Evangeliche in Italia, Comitato Torinese per la Laicità della Scuola,

Crides – Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella

Scuola, Associazione Democrazia Laica, Associazione Scuola

Università Ricerca Assur, Associazione Nazionale del Libero

Pensiero Giordano Bruno, Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici

Razionalisti, Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni,

Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno,

Federazione delle Chiese Pentecostali, Alleanza Evangelica Italiana,

Associazione per la Scuola della Repubblica, Comitato Bolognese

Scuola e Costituzione, Cidi – Centro di Iniziativa Democratica degli

Insegnanti, Ucei – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Mce

Movimento di Cooperazione Educativa, Fnism Federazione

Nazionale Insegnanti, Cgd Coordinamento Genitori Democratici,

Arianna Tassinari, Chiesa Evangelica Valdese, rappresentati e difesi

dagli avv. Fausto Buccellato, Massimo Luciani, con domicilio eletto

presso Fausto Buccellato in Roma, viale Angelico 45; Tavola

Valdese, Associazione Xxxi Ottobre Per Una Scuola Laica e

Pluralista (Promossa Dagli Evangelici Italiani), Chiesa Evangelica

Luterana in Italia, Unione Cristiana Evangelica Battista D’Italia,

Filippo Bagni, Ruben Segre, Alessandro Fusaroli; Organizzazione

Sindacale Cobas Scuola, rappresentato e difeso dall’avv. Arturo

Salerni, con domicilio eletto presso Arturo Salerni in Roma, viale

Carso, 23; Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso

dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio

eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello

55; per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III QUA n.

07076/2009, resa tra le parti, concernente D.M. “ISTRUZIONI E

MODALITÀ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI

STATO” – MATERIA RELIGIONE CATTOLICA. Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consulta Romana per la

Laicità delle Istituzioni e di Comitato Insegnanti Evangelici Italiani

(Ciei) e di Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e di

Comitato Torinese per la Laicità della Scuola e di Crides – Centro

Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola e di

Associazione Democrazia Laica e di Associazione Scuola Università

Ricerca Assur e di Associazione Nazionale del Libero Pensiero

Giordano Bruno e di Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici

Razionalisti e di Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e

di Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno e

di Federazione delle Chiese Pentecostali e di Alleanza Evangelica

Italiana e di Associazione per la Scuola della Repubblica e di

Comitato Bolognese Scuola e Costituzione e di Cidi – Centro di

Iniziativa Democratica degli Insegnanti e di Ucei – Unione delle

Comunità Ebraiche Italiane e di Mce Movimento di Cooperazione

Educativa e di Fnism Federazione Nazionale Insegnanti e di Cgd

Coordinamento Genitori Democratici e di Organizzazione

Sindacale Cobas Scuola e di Conferenza Episcopale Italiana e di

Arianna Tassinari e di Chiesa Evangelica Valdese; Visto l’atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale proposto dal ricorrente incidentale Cei – Conferenza Episcopale

Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco

Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca

in Roma, via Giovanni Paisiello 55;Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 marzo 2010 il Cons.

Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati l’Avv. dello Stato

Volpe, e gli Avv.ti Luciani, Scoca e Damizia per delega di Salerni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO 1. Con i ricorsi di primo grado, la Consulta Romana per la Laicità

delle Istituzioni, altre associazioni laiche e atee, altre istituzioni

cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione

superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione

cattolica, né di insegnamenti sostitutivi hanno chiesto

l’annullamento delle ordinanze relative alla disciplina

dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturità per

l’anno scolastico 2006-2007 e 2007-2008 nella parte in cui si

prevede: – che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica

partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe

concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si

avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia

riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti

delle attività didattiche formative alternative all’insegnamento della

religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le

attività medesime (all’art. 8, punto 13); – che l’attribuzione al punteggio, nell’ambito della banda di

oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi di cui all’articolo

14 comma 2 del d.p.r. 323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato

dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse col

quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ed

il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attività, ivi compreso lo

studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale

disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo

modalità deliberate dalla istituzione medesima;- che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero

far valere tali attività esclusivamente come crediti formativi soltanto

in presenza dei requisiti previsti dal D. M. 49 del 24 febbraio 2000

(art. 8, punto 14). 2. Il T.a.r. ha accolto i ricorsi rilevando che le ordinanze impugnate

si ponessero in contrasto con il principio di laicità dello Stato, come

definito dalle sentenze costituzionali n. 203/1989 e n 334/1996).

Secondo il primo giudice, in particolare, “un insegnamento di

carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede una

valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di

valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della

fede stessa”. Sotto tale profilo, sarebbe dunque evidente “l’irragionevolezza

dell’ordinanza che, nel consentire l’attribuzione di vantaggi

curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilità alla misura

della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito”. Tale

circostanza, del resto, prosegue il T.a.r. riguarderebbe gli stessi

alunni che hanno aderito al’insegnamento della religione con un

consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere

condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.

La sentenza di primo grado osserva ancora che “per comune

esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d.

materie alternativa – concernendo comunque una minoranza della

popolazione scolastica – spesso o non vengono attivate affatto per

mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al

semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula. […]. Il che in

concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri

appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad

accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una

religione in cui non credono; ovvero a subire un ulteriore

discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si

aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico

e culturale”. Da qui la conclusione, secondo cui il sistema

complessivo avrebbe l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle

scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta

Costituzionale e dall’art. 9 del Concordato, in vista di un punteggio

più vantaggioso nel credito scolastico. 3. Avverso tale decisione hanno proposto appello, chiedendone la riforma, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero

dell’Istruzione. Ha proposto appello, mediante ricorso incidentale,

anche la C.E.I. – Conferenza Episcolare Italiana. 4. Gli appelli principale e incidentale possono essere esaminati congiuntamente perché si fondano, in gran parte, su censure

comuni. Gli appellanti in particolare deducono: a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti

(associazioni e studenti); b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai

controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato

per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti

alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)

c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle

disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può

che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico,

specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n.

323/1998; l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà

religiosa e di laicità dello Stato.5. Gli appelli meritano accoglimento.

6. Occorre, anzitutto esaminare, l’eccezione di inammissibilità del

ricorso di primo grado per carenza di interesse e per difetto di

legittimazione. L’eccezione non può essere accolta. Come ha correttamente rilevato il giudice di primo grado, l’interesse fatto valere non è quello immediatamente collegato ad un’utilità di

carattere strumentale od economico concernente la concreta

valutazione dei risultati scolastici o le conseguenze che potrebbero

eventualmente derivare da tali valutazioni sul mercato del lavoro.

I ricorrenti di primo grado deducono la lesione della libertà

religiosa, che, a loro dire, verrebbe compromessa dalle ordinanze

impugnato laddove queste riconoscono sia agli insegnanti della

religione cattolica, sia a quelli dei corsi formativi alternativi di

partecipare ai consigli di classe ai fini dell’attribuzione del credito

scolastico. In tal modo, sostengono gli originari ricorrenti, si crea

una discriminazione in danno a coloro che non si avvalgono

dell’insegnamento della religione cattolica, né optano per un corso

alternativo, il tutto in lesione con il valore costituzionale della libertà

religiosa. Stabilire se questo tipo di censura sia o meno fondata è questione di

merito, non di rito. Non rileva, quindi, ai fini del riconoscimento

della legittimazione e dell’interesse al ricorso. Ai fini dell’ammissibilità ciò che rileva è solo la constatazione che sia le associazioni ricorrenti (che perseguono ideali laici o

professano religioni diversa da quella cattolica), sia gli studenti che

non si avvalgono né dell’insegnamento della religione, né dei corsi

alternativi si trovino in una posizione differenziata rispetto al quisque

de populo rispetto alla contestazione di un provvedimento che essi

assumono lesivo della propria libertà religiosa, perché, secondo la

loro tesi, collocherebbe l’insegnamento della religione cattolica su

un piano di superiorità, interferendo con il diritto (riconosciuto dalla

Corte costituzionale) di scegliere, senza condizionamenti, non

avvalersi di tale né di tale insegnamento né di corsi alternativi.

L’utilità che essi sperano di trarre dall’accoglimento del ricorso è

quindi di carattere ideale, immateriale, ed è certamente utilità che

deve trovare spazio in sede giurisdizionale perché collegata ad un

valore fondamentale della Carta costituzionale, quale è, appunto,

quello della libertà religiosa. L’ascrizione della libertà religiosa tra i diritti civili di rango

costituzionale (art. 19 Cost.) ne assicura, in definitiva, la tutela

avverso gli interventi potenzialmente limitatori di matrice

amministrative. Stabilire poi se effettivamente i provvedimenti impugnati arrechino

o meno tale vulnus alla libertà religiosa è, come si è detto, questione

di merito, che come tale non incide sul riconoscimento della

legittimazione e dell’interesse al ricorso. 7. Ugualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità per omessa notifica ai controinteressati, in quanto, trattandosi di atti di

contenuto generale non sussistono, per pacifica giurisprudenza,

controintressati in senso tecnico-giurico. 8. I ricorsi vanno, quindi, esaminati nel merito.

Al riguardo, occorre prendere le mosse dalla giurisprudenza della

Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della

religione cattolica e sulle norme che lo prevedono.

La norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia

è, come noto, l’art. 9, numero 2, dell’accordo, con protocollo

addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta

modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la

Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia

con la legge n. 121 del 1985, ”. Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.

La prima afferma che “la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della

cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del

patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle

finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole

pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”. La terza prevede che “all’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.

9. Come ha affermato la Corte costituzionale nella storica sentenza

n. 203/1989, con questa terza proposizione il principio di laicità è in

ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la

scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.

La Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi

consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra

materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro

danno, perché proposta in luogo dell’insegnamento di religione

cattolica, quasi corresse tra l’una e l’altro lo schema logico

dell’obbligazione alternativa, quando dinanzi all’insegnamento di

religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà

costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di

coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato

è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare

l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro

famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea

l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non

avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione

infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire

condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve

essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della

libertà costituzionale di religione”. Con la successiva sentenza n. 13 del 1991, la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <<stato di non obbligo>>, è di non rendere

equivalenti e alternativi l’insegnamento di religione cattolica ed altro

impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della

coscienza individuale l’esercizio di una libertà costituzionale, come

quella religiosa, coinvolgente l’interiorità della persona. Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo

per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli

studenti che scelgono l’insegnamento di religione cattolica hanno

motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall’offerta di

opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello

Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole

l’insegnamento di religione cattolica, l’alternativa è tra un si e un no,

tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non

avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo

esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta

affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico

presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun

rapporto con la libertà di religione. Lo <<stato di non-obbligo>>

vale dunque a separare il momento dell’interrogazione di coscienza

sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle

libere richieste individuali alla organizzazione scolastica”.

10. Occorre allora chiedersi, proprio partendo da tali preziosi

insegnamenti del Giudice delle leggi, se le ordinanze ministeriali

impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in

materia di libertà religiosa, discriminando, come sostengono gli

originari ricorrenti, coloro che non scelgono nessuna attività

formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di

scelta in materia religiosa. Al quesito, secondo il Collegio, si deve dare risposta negativa.

Nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze

costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta

dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione

o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di

valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale. Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali contengono elementi a favore della legittimità della scelta

ministeriale. Ai fini che qui ci interessano, le principali statuizioni della Corte

possono essere così sintetizzate.: a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può

essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti

ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività

dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che

essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti

anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola; b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore

che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere

di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno

scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono

l’insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale

serietà da non essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse;

c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di

religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti

non hanno alcun rapporto con la libertà di religione; d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l’esercizio del

diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.

11. Come si diceva, da queste sentenze non si può dedurre

l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la

partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi

alternativi frequentati dai non avvalentisi. Né si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro

che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o

discriminandoli in sede di giudizio scolastico. Non esiste al contrario alcun condizionamento, né alcuna discriminazione. Non esiste condizionamento, perché, riprendendo le stesse parole

usate dalla Corte costituzionale per affrontare la questione se il

minor impegno dei non avvalentisi potesse condizionare la scelta

degli avvalentisi, si può certamente affermare che le famiglie e gli

studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non

seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da

non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o

l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del

consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico.

Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono

qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo

più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per

l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio

(peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del

rendimento scolastico. E’ senz’altro da escludere, insomma, che una valutazione così

importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di

avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico.

Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo

studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le

altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di

credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione

(o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e

quindi incidere negativamente credito scolastico). Del resto, afferma ancora la Corte costituzionale, l’insegnamento della religione è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non

avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un

insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di

seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento

(a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla

valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse

considerazioni valgono per gli insegnamento alternativi che, una

volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori. Insomma tutte l’attività scolastico dell’alunno deve essere valutata ai fini del credito scolastico, che esprime appunto un punteggio per la

carriera scolastica complessiva, ivi inclusa la condotta e il posta in

essere e il profitto raggiunto nell’ambito di quei corsi che,

originariamente facoltativi, diventano obbligatori in seguito alla

scelta fatta. Se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce

proprio delle sentenze costituzionali) secondo cui l’insegnamento

della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio

dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per

la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale

l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere

valutato. Non vi è neanche alcuna discriminazione a carico dei non

avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto

questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo

punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli

studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.

Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli

studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo

studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente

durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non

avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per

insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento

scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di

attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo

pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta

nell’esercizio della libertà religiosa. Egli non può certo pretendere di

essere valutato per attività che, nell’esercizio di un diritto

costituzionale, ha deciso di non svolgere, ma non può nemmeno

pretendere che tali attività non siano valutabili a favore di altri che,

nell’esercizio dello stesso diritto costituzionale, hanno deciso di

svolgerle. E’ la stessa Corte costituzionale a parlare di minore impegno

scolastico dei non avvalentisi che non svolgono attività alternative

(Corte cost. n. 13/1991) 12. Del resto, chi segue l’insegnamento della religione (o di altro

corso alternativo) non avrà per ciò solo automaticamente un

punteggio aggiuntivo in sede di credito scolastico, ma si terrà conto,

ai fini dell’attribuzione del punteggio che valuta la sua carriera

scolastica, anche del giudizio espresso dall’insegnante di religione o

di altro insegnamento sostitutivo. Che di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento

obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o

negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.

Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione

alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad

estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a

seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento

alternativo. In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne

avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento

obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi,

arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa

libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che,

dunque, ha il diritto-dovere di frquentarlo e di essere valutato per

l’interesse e il profitto dimostrato.13. Né sarebbe corretto ritenere che per effetto delle ordinanze in

questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad

un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali

prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga

conto anche dell’interess econ cui ha seguito l’ora di religione (o di

corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa

giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un

obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve

essere oggetto di valutazione. A favore di tale conclusione depone, a livello legislativo, la

previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche

dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti

di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con

gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”. 14. Non si ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione

cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e

comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale

nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante

l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.

Gli originari ricorrenti sostengono che da questa norma deriverebbe

il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che

escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di

classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere

in considerazione il loro giudizio. Tale conclusione non può essere però condivisa.

Le ordinanze in questioni non prevedono, infatti, che l’insegnante di

religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del

punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del

giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale

l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero

l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini,

quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur

non potendosi tradurre in un voto numerico contiene

necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le

ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio

diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del

punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla

tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il

credito scolastico. 15. Per comprendere ancora meglio perché le ordinanze impugnate

non diano luogo ad alcuna forma di discriminazione, né si pongano

in contrasto con le previsioni di legge, giova spendere qualche

parola sulle modalità di calcolo del cosiddetto credito scolastico. Il credito scolastico trova la sua disciplina nell’art. 11 D.P.R. n.323/1998 il quale prevede: “Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della

scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l’andamento degli studi,

denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni

costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell’articolo 4, comma 6, si aggiunge

ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d’esame scritte e orali. Per gli

istituti professionali e gli istituti d’arte si provvede all’attribuzione del credito

scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di

qualifica e di licenza”. (comma 1). Il comma secondo continua prevedendo che “Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva

raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso, con riguardo al

profitto e tenendo in considerazione anche l’assiduità della frequenza scolastica,

ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell’area di progetto,

l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività

complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito

sulla base dell’allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.

Dalla tabella allegata al regolamento si evince che il punto di

partenza per l’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti

(in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione

e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un

voto). Ad ogni voto o fascia di voti corrisponde un punteggio in termini di

credito scolastico. Il punteggio non è fisso, ma oscilla tra un minimo

e un massimo nell’ambito della c.d. banda di oscillazione (che varia

di un punto). Ad esempio, chi al terzo anno ha la media del 6 può

avere un credito scolastico tra 4 e 5 punti; chi ha una media

compresa tra 6 e 7 può avere u n credito scolastico che varia tra 5 e

6 e così via. Questo significa, evidentemente, che, pur in presenza

della stessa media di voti, un alunno può avere un credito scolastico

maggiore perché gli viene riconosciuto quel punto aggiuntivo

previsto dalla c.d. banda di oscillazione. Il regolamento prevede che il credito scolastico da attribuire nell’ambito delle bande di oscillazione va espresso in numero intero

e deve tenere in considerazione, oltre alla media dei voti, anche

l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella

partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed

integrative ed eventuali crediti formativi. 16. E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini

dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di

oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti

di religione o di insegnamenti alternativi. Il loro giudizio è quindi solo uno dei tanti elementi da prendere in considerazione scolastica e sul comportamento dell’alunno, al fine dell’attribuzione. l’insegnamento alternativo) non possa avere questo

punto in più: potrà comunque averlo sulla base degli altri elementi

che la legge considera rilevanti (media dei voti, l’assiduità della

frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al

dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed

eventuali crediti formativi). Chi segue religione (o l’insegnamento alternativo) non è

avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come

si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che consegue

anche nell’ora di religione (o del corso alternativo). Chi non segue

religione né il corso alternativo, ugualmente, non è discriminato né

favorito: semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un

momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma

rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore

nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri

elementi valutabili a suo favore. 17. Occorre, tuttavia, a questo punto, affrontare un problema che,

pur non rientrando nel thema decidendum del presente giudizio, è stato

tuttavia oggetto di specifica di trattazione da parte del primo

giudice: ovvero la constatazione che in molte scuole gli

insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati,

lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica

alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica. Si tratta di

un argomento che, come si ricordava all’inizio, è stato utilizzato dal

T.a.r. per rafforzare la tesi della illegittimità delle ordinanze

impugnate. Pur non essendo specificamente dedotto nei motivi di ricorso, la

preoccupazione manifestata dal giudice di primo grado va tenuta

nella massima considerazione. Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi

alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si

fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso

piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito

della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e

l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno

quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.

Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi

alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà

religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle

ordinanze in esame. Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo

studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi

dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di

di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d.

studio assistito). La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere

sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di

seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata

dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure

indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il

diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost. Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare,

facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza

essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi

obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle

ordinanze della cui legittimità ora si discute. Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non

coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano

invece presupporre. 18. In base alle considerazioni che precedono, gli appelli devono, in

definitiva, essere accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenza

impugnata, deve respingersi il ricorso di primo grado. La complessità della materia, l’assenza di precedenti giurisprudenziali specifici e la serietà delle questioni sollevate, specie

dal punto di vista etico e costituzionale, impongono la

compensazione delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie gli appelli principale e incidentale. Spese compensate

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità

amministrativa.Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo

2010 con l’intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo, Presidente

Paolo Buonvino, Consigliere

Rosanna De Nictolis, Consigliere

Roberto Garofoli, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/05/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione

N. 07324/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE Sul ricorso numero di registro generale 7324 del 2009, proposto da:

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Presidenza

del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura

Generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei

Portoghesi 12; contro Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, Comitato

Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei), Federazione delle Chiese

Evangeliche in Italia, Comitato Torinese per la Laicità della Scuola,

Crides – Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella

Scuola, Associazione Democrazia Laica, Associazione Scuola

Università Ricerca Assur, Associazione Nazionale del Libero

Pensiero Giordano Bruno, Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici

Razionalisti, Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni,

Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno,

Federazione delle Chiese Pentecostali, Alleanza Evangelica Italiana,

Associazione per la Scuola della Repubblica, Comitato Bolognese

Scuola e Costituzione, Cidi – Centro di Iniziativa Democratica degli

Insegnanti, Ucei – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Mce

Movimento di Cooperazione Educativa, Fnism Federazione

Nazionale Insegnanti, Cgd Coordinamento Genitori Democratici,

Arianna Tassinari, Chiesa Evangelica Valdese, rappresentati e difesi

dagli avv. Fausto Buccellato, Massimo Luciani, con domicilio eletto

presso Fausto Buccellato in Roma, viale Angelico 45; Tavola

Valdese, Associazione Xxxi Ottobre Per Una Scuola Laica e

Pluralista (Promossa Dagli Evangelici Italiani), Chiesa Evangelica

Luterana in Italia, Unione Cristiana Evangelica Battista D’Italia,

Filippo Bagni, Ruben Segre, Alessandro Fusaroli; Organizzazione

Sindacale Cobas Scuola, rappresentato e difeso dall’avv. Arturo

Salerni, con domicilio eletto presso Arturo Salerni in Roma, viale

Carso, 23; Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso

dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio

eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello

55; per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III QUA n.

07076/2009, resa tra le parti, concernente D.M. “ISTRUZIONI E

MODALITÀ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI

STATO” – MATERIA RELIGIONE CATTOLICA.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consulta Romana per la

Laicità delle Istituzioni e di Comitato Insegnanti Evangelici Italiani

(Ciei) e di Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e di

Comitato Torinese per la Laicità della Scuola e di Crides – Centro

Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola e di

Associazione Democrazia Laica e di Associazione Scuola Università

Ricerca Assur e di Associazione Nazionale del Libero Pensiero

Giordano Bruno e di Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici

Razionalisti e di Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e

di Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno e

di Federazione delle Chiese Pentecostali e di Alleanza Evangelica

Italiana e di Associazione per la Scuola della Repubblica e di

Comitato Bolognese Scuola e Costituzione e di Cidi – Centro di

Iniziativa Democratica degli Insegnanti e di Ucei – Unione delle

Comunità Ebraiche Italiane e di Mce Movimento di Cooperazione

Educativa e di Fnism Federazione Nazionale Insegnanti e di Cgd

Coordinamento Genitori Democratici e di Organizzazione

Sindacale Cobas Scuola e di Conferenza Episcopale Italiana e di

Arianna Tassinari e di Chiesa Evangelica Valdese;

Visto l’atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale

proposto dal ricorrente incidentale Cei – Conferenza Episcopale

Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco

Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca

in Roma, via Giovanni Paisiello 55;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 marzo 2010 il Cons.

Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati l’Avv. dello Stato

Volpe, e gli Avv.ti Luciani, Scoca e Damizia per delega di Salerni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con i ricorsi di primo grado, la Consulta Romana per la Laicità

delle Istituzioni, altre associazioni laiche e atee, altre istituzioni

cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione

superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione

cattolica, né di insegnamenti sostitutivi hanno chiesto

l’annullamento delle ordinanze relative alla disciplina

dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturità per

l’anno scolastico 2006-2007 e 2007-2008 nella parte in cui si

prevede: – che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica

partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe

concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si

avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia

riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti

delle attività didattiche formative alternative all’insegnamento della

religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le

attività medesime (all’art. 8, punto 13); – che l’attribuzione al punteggio, nell’ambito della banda di

oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi di cui all’articolo

14 comma 2 del d.p.r. 323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato

dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse col

quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ed

il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attività, ivi compreso lo

studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale

disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo

modalità deliberate dalla istituzione medesima; – che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero

far valere tali attività esclusivamente come crediti formativi soltanto

in presenza dei requisiti previsti dal D. M. 49 del 24 febbraio 2000

(art. 8, punto 14). 2. Il T.a.r. ha accolto i ricorsi rilevando che le ordinanze impugnate

si ponessero in contrasto con il principio di laicità dello Stato, come

definito dalle sentenze costituzionali n. 203/1989 e n 334/1996).

Secondo il primo giudice, in particolare, “un insegnamento di

carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede

individuale, non può assolutamente essere oggetto di una

valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di

valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della

fede stessa”. Sotto tale profilo, sarebbe dunque evidente “l’irragionevolezza

dell’ordinanza che, nel consentire l’attribuzione di vantaggi

curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilità alla misura

della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito”. Tale

circostanza, del resto, prosegue il T.a.r. riguarderebbe gli stessi

alunni che hanno aderito al’insegnamento della religione con un

consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere

condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.

La sentenza di primo grado osserva ancora che “per comune

esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d.

materie alternativa – concernendo comunque una minoranza della

popolazione scolastica – spesso o non vengono attivate affatto per

mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al

semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula. […]. Il che in

concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri

appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad

accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una

religione in cui non credono; ovvero a subire un ulteriore

discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si

aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico

e culturale”. Da qui la conclusione, secondo cui il sistema

complessivo avrebbe l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle

scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta

Costituzionale e dall’art. 9 del Concordato, in vista di un punteggio

più vantaggioso nel credito scolastico.3. Avverso tale decisione hanno proposto appello, chiedendone la riforma, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero

dell’Istruzione. Ha proposto appello, mediante ricorso incidentale,

anche la C.E.I. – Conferenza Episcolare Italiana. 4. Gli appelli principale e incidentale possono essere esaminati congiuntamente perché si fondano, in gran parte, su censure

comuni. Gli appellanti in particolare deducono: a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti

(associazioni e studenti); b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai

controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato

per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti

alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)

c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle

disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può

che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico,

specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n.

323/1998; l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà religiosa e di laicità dello Stato. 5. Gli appelli meritano accoglimento. 6. Occorre, anzitutto esaminare, l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse e per difetto di legittimazione. L’eccezione non può essere accolta. Come ha correttamente rilevato il giudice di primo grado, l’interesse fatto valere non è quello immediatamente collegato ad un’utilità di carattere strumentale od economico concernente la concreta valutazione dei risultati scolastici o le conseguenze che potrebbero eventualmente derivare da tali valutazioni sul mercato del lavoro.

I ricorrenti di primo grado deducono la lesione della libertà

religiosa, che, a loro dire, verrebbe compromessa dalle ordinanze

impugnato laddove queste riconoscono sia agli insegnanti della

religione cattolica, sia a quelli dei corsi formativi alternativi di

partecipare ai consigli di classe ai fini dell’attribuzione del credito

scolastico. In tal modo, sostengono gli originari ricorrenti, si crea

una discriminazione in danno a coloro che non si avvalgono

dell’insegnamento della religione cattolica, né optano per un corso

alternativo, il tutto in lesione con il valore costituzionale della libertà

religiosa. Stabilire se questo tipo di censura sia o meno fondata è questione di

merito, non di rito. Non rileva, quindi, ai fini del riconoscimento

della legittimazione e dell’interesse al ricorso. Ai fini dell’ammissibilità ciò che rileva è solo la constatazione che sia le associazioni ricorrenti (che perseguono ideali laici o

professano religioni diversa da quella cattolica), sia gli studenti che

non si avvalgono né dell’insegnamento della religione, né dei corsi

alternativi si trovino in una posizione differenziata rispetto al quisque

de populo rispetto alla contestazione di un provvedimento che essi

assumono lesivo della propria libertà religiosa, perché, secondo la

loro tesi, collocherebbe l’insegnamento della religione cattolica su

un piano di superiorità, interferendo con il diritto (riconosciuto dalla

Corte costituzionale) di scegliere, senza condizionamenti, non

avvalersi di tale né di tale insegnamento né di corsi alternativi.

L’utilità che essi sperano di trarre dall’accoglimento del ricorso è

quindi di carattere ideale, immateriale, ed è certamente utilità che

deve trovare spazio in sede giurisdizionale perché collegata ad un

valore fondamentale della Carta costituzionale, quale è, appunto,

quello della libertà religiosa. L’ascrizione della libertà religiosa tra i diritti civili di rango costituzionale (art. 19 Cost.) ne assicura, in definitiva, la tutela

avverso gli interventi potenzialmente limitatori di matrice

amministrative. Stabilire poi se effettivamente i provvedimenti impugnati arrechino

o meno tale vulnus alla libertà religiosa è, come si è detto, questione

di merito, che come tale non incide sul riconoscimento della

legittimazione e dell’interesse al ricorso.

7. Ugualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità per omessa

notifica ai controinteressati, in quanto, trattandosi di atti di

contenuto generale non sussistono, per pacifica giurisprudenza,

controintressati in senso tecnico-giurico.

8. I ricorsi vanno, quindi, esaminati nel merito.

Al riguardo, occorre prendere le mosse dalla giurisprudenza della

Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della

religione cattolica e sulle norme che lo prevedono.

La norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia

è, come noto, l’art. 9, numero 2, dell’accordo, con protocollo

addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta

modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la

Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia

con la legge n. 121 del 1985, ”. Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.

La prima afferma che “la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della

cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del

patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle

finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole

pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”. La terza prevede che “all’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.

9. Come ha affermato la Corte costituzionale nella storica sentenza

n. 203/1989, con questa terza proposizione il principio di laicità è in

ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la

scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.

La Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi

consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra

materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro

danno, perché proposta in luogo dell’insegnamento di religione

cattolica, quasi corresse tra l’una e l’altro lo schema logico

dell’obbligazione alternativa, quando dinanzi all’insegnamento di

religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà

costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di

coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato

è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare

l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro

famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea

l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non

avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione

infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire

condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve

essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della

libertà costituzionale di religione”. Con la successiva sentenza n. 13 del 1991, la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <<stato di non obbligo>>, è di non rendere

equivalenti e alternativi l’insegnamento di religione cattolica ed altro

impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della

coscienza individuale l’esercizio di una libertà costituzionale, come

quella religiosa, coinvolgente l’interiorità della persona.

Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel

disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo

per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli

studenti che scelgono l’insegnamento di religione cattolica hanno

motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall’offerta di

opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello

Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole

l’insegnamento di religione cattolica, l’alternativa è tra un si e un no,

tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non

avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo

esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta

affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico

presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun

rapporto con la libertà di religione. Lo <<stato di non-obbligo>>

vale dunque a separare il momento dell’interrogazione di coscienza

sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle

libere richieste individuali alla organizzazione scolastica”.

10. Occorre allora chiedersi, proprio partendo da tali preziosi

insegnamenti del Giudice delle leggi, se le ordinanze ministeriali

impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in

materia di libertà religiosa, discriminando, come sostengono gli

originari ricorrenti, coloro che non scelgono nessuna attività

formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di

scelta in materia religiosa. Al quesito, secondo il Collegio, si deve dare risposta negativa.

Nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze

costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta

dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione

o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di

valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale.

Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali

contengono elementi a favore della legittimità della scelta

ministeriale. Ai fini che qui ci interessano, le principali statuizioni della Corte

possono essere così sintetizzate.:

a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può

essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti

ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività

dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che

essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti

anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola;

b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non

avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei

confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore

che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere

di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno

scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono

l’insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale

serietà da non essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse;

c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di

religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti

non hanno alcun rapporto con la libertà di religione;

d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa

la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l’esercizio del

diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.

11. Come si diceva, da queste sentenze non si può dedurre

l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi alternativi frequentati dai non avvalentisi. Né si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o

discriminandoli in sede di giudizio scolastico. Non esiste al contrario alcun condizionamento, né alcuna discriminazione. Non esiste condizionamento, perché, riprendendo le stesse parole usate dalla Corte costituzionale per affrontare la questione se il minor impegno dei non avvalentisi potesse condizionare la scelta degli avvalentisi, si può certamente affermare che le famiglie e gli

studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non

seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da

non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o

l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del

consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico.

Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono

qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo

più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per

l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio

(peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del

rendimento scolastico. E’ senz’altro da escludere, insomma, che una valutazione così importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di

avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico.

Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo

studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le

altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di

credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione

(o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e

quindi incidere negativamente credito scolastico).

Del resto, afferma ancora la Corte costituzionale, l’insegnamento

della religione è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non

avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un

insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di

seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento

(a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla

valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse

considerazioni valgono per gli insegnamento alternativi che, una

volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori. Insomma tutte l’attività scolastico dell’alunno deve essere valutata ai fini del credito scolastico, che esprime appunto un punteggio per la carriera scolastica complessiva, ivi inclusa la condotta e il posta in essere e il profitto raggiunto nell’ambito di quei corsi che, originariamente facoltativi, diventano obbligatori in seguito alla

scelta fatta. Se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce

proprio delle sentenze costituzionali) secondo cui l’insegnamento

della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio

dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per

la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale

l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere

valutato. Non vi è neanche alcuna discriminazione a carico dei non

avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto

questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo

punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli

studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.

Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli

studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo

studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente

durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non

avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per

insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento

scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di

attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo

pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta

nell’esercizio della libertà religiosa. Egli non può certo pretendere di

essere valutato per attività che, nell’esercizio di un diritto

costituzionale, ha deciso di non svolgere, ma non può nemmeno

pretendere che tali attività non siano valutabili a favore di altri che,

nell’esercizio dello stesso diritto costituzionale, hanno deciso di

svolgerle. E’ la stessa Corte costituzionale a parlare di minore impegno

scolastico dei non avvalentisi che non svolgono attività alternative

(Corte cost. n. 13/1991)

12. Del resto, chi segue l’insegnamento della religione (o di altro

corso alternativo) non avrà per ciò solo automaticamente un

punteggio aggiuntivo in sede di credito scolastico, ma si terrà conto,

ai fini dell’attribuzione del punteggio che valuta la sua carriera

scolastica, anche del giudizio espresso dall’insegnante di religione o

di altro insegnamento sostitutivo. Che di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento

obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o

negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.

Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione

alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad

estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a

seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento

alternativo. In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne

avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento

obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi,

arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa

libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che,

dunque, ha il diritto-dovere di frquentarlo e di essere valutato per

l’interesse e il profitto dimostrato.

13. Né sarebbe corretto ritenere che per effetto delle ordinanze in

questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad

un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali

prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga

conto anche dell’interess econ cui ha seguito l’ora di religione (o di

corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa

giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un

obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve

essere oggetto di valutazione. A favore di tale conclusione depone, a livello legislativo, la

previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche

dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti

di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con

gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”. 14. Non si ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione

cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e

comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale

nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante

l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.

Gli originari ricorrenti sostengono che da questa norma deriverebbe

il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che

escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di

classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere

in considerazione il loro giudizio. Tale conclusione non può essere però condivisa.

Le ordinanze in questioni non prevedono, infatti, che l’insegnante di

religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del

punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del

giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale

l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero

l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini,

quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur

non potendosi tradurre in un voto numerico contiene

necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le

ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio

diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del

punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla

tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il

credito scolastico. 15. Per comprendere ancora meglio perché le ordinanze impugnate

non diano luogo ad alcuna forma di discriminazione, né si pongano

in contrasto con le previsioni di legge, giova spendere qualche

parola sulle modalità di calcolo del cosiddetto credito scolastico.

Il credito scolastico trova la sua disciplina nell’art. 11 D.P.R. n.

323/1998 il quale prevede: “Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno

che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della

scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l’andamento degli studi,

denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni

costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell’articolo 4, comma 6, si aggiunge

ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d’esame scritte e orali. Per gli

istituti professionali e gli istituti d’arte si provvede all’attribuzione del credito

scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di

qualifica e di licenza”. (comma 1). Il comma secondo continua prevedendo che “Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva

raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso, con riguardo al

profitto e tenendo in considerazione anche l’assiduità della frequenza scolastica,

ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell’area di progetto,

l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività

complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito

sulla base dell’allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.

Dalla tabella allegata al regolamento si evince che il punto di

partenza per l’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti

(in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione

e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un

voto). Ad ogni voto o fascia di voti corrisponde un punteggio in termini di

credito scolastico. Il punteggio non è fisso, ma oscilla tra un minimo

e un massimo nell’ambito della c.d. banda di oscillazione (che varia

di un punto). Ad esempio, chi al terzo anno ha la media del 6 può

avere un credito scolastico tra 4 e 5 punti; chi ha una media

compresa tra 6 e 7 può avere u n credito scolastico che varia tra 5 e

6 e così via. Questo significa, evidentemente, che, pur in presenza

della stessa media di voti, un alunno può avere un credito scolastico

maggiore perché gli viene riconosciuto quel punto aggiuntivo

previsto dalla c.d. banda di oscillazione. Il regolamento prevede che il credito scolastico da attribuire nell’ambito delle bande di oscillazione va espresso in numero intero

e deve tenere in considerazione, oltre alla media dei voti, anche

l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella

partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed

integrative ed eventuali crediti formativi. 16. E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini

dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di

oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti

di religione o di insegnamenti alternativi. Il loro giudizio è quindi solo uno dei tanti elementi da prendere in considerazione, nell’ambito di un giudizio complessivo sulla carriera

scolastica e sul comportamento dell’alunno, al fine dell’attribuzione

di un punto. Il che non vuol dire – questo va ribadito – che chi non segue

religione (o l’insegnamento alternativo) non possa avere questo

punto in più: potrà comunque averlo sulla base degli altri elementi

che la legge considera rilevanti (media dei voti, l’assiduità della

frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al

dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed

eventuali crediti formativi). Chi segue religione (o l’insegnamento alternativo) non è

avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come

si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che conegue

anche nell’ora di religione (o del corso alternativo). Chi non segue

religione né il corso alternativo, ugualmente, non è discriminato né

favorito: semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un

momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma

rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore

nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri

elementi valutabili a suo favore. 17. Occorre, tuttavia, a questo punto, affrontare un problema che,

pur non rientrando nel thema decidendum del presente giudizio, è stato

tuttavia oggetto di specifica di trattazione da parte del primo

giudice: ovvero la constatazione che in molte scuole gli

insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati,

lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica

alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica. Si tratta di

un argomento che, come si ricordava all’inizio, è stato utilizzato dal

T.a.r. per rafforzare la tesi della illegittimità delle ordinanze

impugnate.

Pur non essendo specificamente dedotto nei motivi di ricorso, la

preoccupazione manifestata dal giudice di primo grado va tenuta

nella massima considerazione.

Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi

alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si

fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso

piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito

della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e

l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno

quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.

Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi

alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà

religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle

ordinanze in esame.

Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo

studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi

dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di

di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d.

studio assistito).

La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere

sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di

seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata

dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure

indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il

diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.

Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo

dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare,

facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza

essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi

obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle

ordinanze della cui legittimità ora si discute.

Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente

farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non

coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano

invece presupporre.

18. In base alle considerazioni che precedono, gli appelli devono, in

definitiva, essere accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenza

impugnata, deve respingersi il ricorso di primo grado.

La complessità della materia, l’assenza di precedenti

giurisprudenziali specifici e la serietà delle questioni sollevate, specie

dal punto di vista etico e costituzionale, impongono la

compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie

gli appelli principale e incidentale.

Spese compensate

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità

amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo

2010 con l’intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo, Presidente

Paolo Buonvino, Consigliere

Rosanna De Nictolis, Consigliere

Roberto Garofoli, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

L’estensore il presidente

Il Segretario

depositata in segreteria

Il 07/05/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione