Dissidio Fini e Berlusconi tra riforme costituzionali

La sconcertante dialettica critica che ha pubblicamente messo in rilievo il forte disagio politico ed istituzionale che divarica i rapporti politici tra l’on. Berlusconi e l’on. Fini, ha riproposto all’attenzione dell’agenda politica alcuni temi irrisolti che riguardano eventuali riforme costituzionali, modalità da seguire nel processo riformatore, ruolo dei partiti nel sistema parlamentare, capacità di rappresentanza popolare nel sistema istituzionale e non ultimo la ridefinizione del concetto di sovranità popolare. Una delle occasioni del confronto minoritario dell’on. Fini, in quanto figura istituzionale dacchè Presidente della Camera dei Deputati, è stato il ruolo della Lega nell’attuale maggioranza e della supposta incapacità del Partito nato nel Nord del paese di accettare, in qualità di membro del Governo, il ruolo doveroso di partecipante al sistema costituzionale di unità della nazione. Ad alcuni osservatori è parso possibile collegare la differenziazione pretesa dall’on. Fini nei confronti della maggioranza del PDL (ed anche degli ex AN) alla eventuale successione alla guida del governo dell’on. Berlusconi, qualora si realizzasse una riforma costituzionale dei poteri presidenziali e dell’esecutivo o, senza riforma, vigendo l’attuale costituzione. Da più parti è stata infatti rilevata la crescente influenza della Lega e la possibilità, resa concreta dai risultati elettorali e dal buon lavoro svolto all’Economia, di indicare nell’on. Giulio Tremonti l’uomo politico capace di conservare un rapporto costruttivo tra PDL e Lega. L’on. Fini , che del PDL fu cofondatore, è parso agli occhi di molti non particolarmente dotato nella difesa di alcuni valori della Destra italiana, lasciando campo libero nella maggioranza, perché non bisognoso delle mediazioni di Berlusconi, alle progressive installazioni territoriali di un partito-movimento attento ai bisogni locali e notoriamente di buona gestione nelle amministrazioni. Il dibattito che si è formato, sfiorando in alcuni non encomiabili casi la rissa, non ha tirato per la giacca l’on. Tremonti che, nel pieno del bailamme, a Parma, parlando all’Assemblea della Confindustria, ha ricordato, con De Gasperi, che i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle future generazioni, ed ha invitato gli industriali e tramite questi tutte le parti politiche e sociali a meditare sul fatto che l’interesse generale non è dato dalla somma aritmetica degli interessi particolari, dalla convergenza degli egoismi individuali e dei blocchi corporativi. I nostri lettori leggeranno agevolmente quanto dichiarato dall’on. Tremonti, quello che qui importa è che un uomo politico propone una azione nell’interesse generale, che sia comune a tutti coloro che vogliono far prevalere le virtù sui vizi volgendo pessimismo in ottimismo e sfiducia in fiducia. Per Tremonti è necessario battere l’anarchia, restituire certezza e nell’ambito della grande rivoluzione di questo scorcio di millennio, rappresentato dopo il secolo della industrializzazione, delle ideologie, delle guerre, nel passaggio nuovo del baricentro globale dall’Atlantico al Pacifico. Secondo Tremonti, superato il mercatismo, l’idea cioè che sia l’economia a dominare la politica, e tornato il ruolo salvifico e/o provvidenziale degli Stati, dei Governi, della politica, è giunto il momento di pianificare riforme strutturali, sapendo che la riforma delle riforme è in Italia quella fiscale. Tremonti ricorda come già dal 1994, allora in anticipo, oggi nei tempi giusti (e quindi corti) è necessario provvedere ad una riforma che accompagni il passaggio della fiscalità dalle persone alle cose; dal complesso al semplice; dal centro alla periferia. L’alta intensità politica della Riforma progettata dal ministro ha evidentemente risvolti costituzionali importanti e si poggia su una certezza, quella del tempo di durata del Governo e della sua maggioranza. Nelle società ricche ed affluenti la crescita della ricchezza avviene in modo diverso da quelle povere. 1 a) le società povere, infatti, sviluppano accumulazione al di fuori dei sistemi istituzionali stabili grazie alla pressione dei singoli;1 b) nelle società sviluppate è necessario che il quadro democratico dei diritti e dei bisogni sia ordinato, non frastagliato ed indeciso. L’accumulazione disordinata danneggerebbe la maggioranza dei cittadini, che risulterebbero impoveriti (fiscalità, comparazione e concorrenza) dalla aggressività di minoranze spregiudicate.2) Il quadro democratico di un paese è disegnato dalla cornice istituzionale, che valorizza e determina la sovranità popolare ed il diritto dei singoli;2 a) Sovranità popolare e diritti sono la base imprescindibile della azione politica e del buon governo;2 b)  In una società molto ricca, qual’è quella italiana, la  fluidità del quadro istituzionale ha impedito lo sviluppo di una coerente azione politica che sia supporto dell’attività individuale. Il solo esempio della evasione fiscale è sufficiente per sottolineare la creazione, ad un certo momento della nostra storia, della crescita economica ma anche delle disparità tra cittadini, dell’impoverimento degli investimenti pubblici, dell’ingiusto arricchimento di vasti strati della popolazione.L’analisi della attuale debolezza del quadro istituzionale deve essere compiuta alla luce dell’analisi storica, che consente di valutare i benefici del passato, le difficoltà del presente e di  proiettare nel futuro immediato possibilità concrete di nuove organizzazioni delle istanze sociali.Nei primi cinquant’anni di vita repubblicana della nostra nazione la tenuta del quadro istituzionale fu garantita da una Costituzione rigida interpretata alla luce della Costituzione materiale, sviluppata in seno al Parlamento, col confronto continuo con le parti sociali. Strada diversa non si poteva percorrere, perché la democrazia conflittuale ed alternativa non poteva realizzarsi a causa delle conseguenze della seconda guerra mondiale e dei rischi generati nella guerra fredda dalle contrapposizioni ideologiche.Il bipartitismo imperfetto “alla italiana” impedì che le azioni di forze assolutamente contrapposte degenerassero in una nascosta guerra civile, come era accaduto alla fine della seconda guerra mondiale, che solo la straordinaria capacità di De Gasperi riuscì progressivamente a placare per lo meno nei fatti d’arme. Lo sviluppo mondiale pretendeva una chiara collocazione della nazione tra i paesi democratici ad economia liberale ed era necessario che un equilibrio, pur precario, tra parti contrapposte non fosse viziato da autoritarismi di diversa natura. Un ruolo in questo senso fondamentale fu svolto dai laici e dai socialisti, che seppero interpretare una cultura di rinnovamento progressista in collaborazione con la borghesia cattolica ispirata dalla Chiesa, visto che la borghesia, quella “storica” laica, era stata abbondantemente inquinata dal fascismo e non era utilizzabile nel nuovo contesto politico. L’implosione comunista alla fine degli anni ’80 e la riorganizzazione del sistema capitalistico attraverso la finanza, hanno posto tutto il mondo, e non solo l’Italia, a dover affrontare nuovi problemi. Per quello che ci riguarda non solo nuovi, ma anche vecchi problemi, fra i quali quelli della democrazia incompiuta. Se, per esempio, le scuole monetariste anglosassoni hanno spinto verso la finanziarizzazione della economia, hanno anche sviluppato processi di deindustrializzazione a causa delle delocalizzazioni, creando aspettative non soddisfatte da vecchie teorie di distribuzione del benessere. La Costituzione materiale, nonostante varie riforme del sistema elettorale e tentativi di riforme costituzionali di tipo federalista, si è dimostrata insufficiente a governare la realtà complessa della nostra società. Se la realtà italiana è complessa lo è anche per la grande capacità di generazione della ricchezza che nasce dal territorio. Soltanto una riforma costituzionale può gestire soluzioni condivise della territorialità, e solo la territorialità nella società globale può difendere e stimolare il concorso delle individualità alla crescita. In questo ambito, ad esempio, il federalismo fiscale si coniuga con la democrazia sociale perorata da Mazzini e con il premio politico della questione istituzionale sottolineata dal socialismo ai suoi albori dopo l’esperienza garibaldina. Nel nostro millennio occorre coniugare il local con il global. Lo dobbiamo alle nuove generazioni, a quelle che per la prima volta nella Storia sono chiamate ad assistere i loro genitori per lunghi anni e nello stesso tempo non godranno di quello straordinario privilegio legato alla evoluzione tipica delle generazioni precedenti: quella di poter dire io farò meglio dei miei genitori, io svolgerò professioni più gratificanti, io guadagnerò di più di mio nonno e di mio padre. Nel 2010 il lavoro a tempo indeterminato è considerato una vincita alla lotteria e le pensioni sono spesso superiori ai salari. Ed allora bisogna con ottimismo disegnare nuovi obbiettivi per creare investimenti, valorizzare il risparmio, incitare allo sviluppo industriale congiunto ad un ordine territoriale basato su progetti di sviluppo localizzati. L’individuazione politica, su base territoriale, delle motivazioni di programmi di sviluppo, consente non solo risparmi ma soprattutto certezza nel tempo necessario per realizzarli. A proposito di Federalismo Fiscale. Si valuti l’esempio delle Regioni meno favorite. Per quale motivo lo sviluppo della Campania deve essere collegato a piani di sviluppo nazionale tanto costosi quanto, come l’esperienza ci ha insegnato, inefficaci? In Campania esistono grandi spazi, che nascono dalla storia, di impegno nella cantieristica navale, nella gestione dei sistemi portuali, nell’agricoltura e nel turismo, per non parlare degli aspetti economici collegati alla cultura. Dopo aver bruciato risorse enormi nell’imitare la Lombardia, perché non indicare alle nuove generazioni impegni concreti, inediti e di lungo periodo, finanziabili di volta in volta secondo necessità, attraverso gli introiti fiscali? Rimangono aperti i problemi che riguardano la sussidiarietà, i coordinamenti infrastrutturali, le garanzie tipiche dello Stato unitario nella difesa, nella politica estera, nel diritto. Elementi coordinabili attraverso un Governo nazionale a guida presidenziale. L’importante è che le contrapposizioni, tipiche della democrazia conflittuale, si esercitino all’interno di mature strutture istituzionali che deleghino la terzietà alla pubblica amministrazione, sia essa nazionale che regionale, evitando sia la pesante ingerenza clientelare della politica che l’esercizio di “poteri neutri”, che assumono impropri poteri politici ed istituzionali. La Costituzione materiale era basata sulla regola non scritta del consenso, e per concorrere al consenso la stessa Costituzione obbliga le istituzioni a indicare, quasi sempre ad un terzo dei componenti, con figure cosiddette neutre, esponenti di improbabili società civili, avulse dal contesto partitocratico della prima repubblica e da quello lobbistico della seconda, ad occupare rilevanti incarichi. Sappiamo tutti come è finita la storia, grazie anche alla contemporanea delegittimazione della politica e al superamento abnorme delle competenze della magistratura. Soltanto una Costituzione delle regole, non suscettibile di modifiche estemporanee, come accade con la Costituzione materiale, può dare prestigio e certezza alla politica rappresentativa ed ai cittadini. Il segretario del PSI Bettino Craxi fu accusato di “decisionismo” perché propugnava una grande riforma basata sulla Costituzione delle regole. Definizione, questa, quanto mai impropria. E’ ovvio, infatti, che il “decisionismo” è tipico di una Costituzione materiale, perché legata alla interpretazione, ovvero alla “decisione”, che nasce dal consenso. Quello di cui abbiamo bisogno nel nostro Paese è lo stabilimento chiaro e certo di regole che, proprio perché tali, non possono indurre né ad autoritarismi, né a scelte, seppur motivate, diverse da quelle che la definizione costituzionale obbliga ad accettare. Chiedere di modificare la Costituzione non può e non deve essere accostato ad accuse di decisionismo e/o di autoritarismo. Eventuali modifiche costituzionali di tipo federalista spaventano ancora molti cittadini che temono più il Nord del Paese che la convinzione di lavorare per dare certezze al futuro. Non vi deve essere preoccupazione eccessiva di un Nord ricco verso un Sud povero: il caso pugliese dimostra che una regione non favorita può produrre un pil regionale assimilabile a quello del centro del Paese, facendo appello alla straordinaria ricchezza di territorio, alla  giovane età di una popolazione largamente alfabetizzata, producendo sviluppo della ricchezza. Le società ricche del Nord hanno oggi ed avranno domani un mercato di sostegno nel Sud Italia e potranno mantenere inalterate le garanzie di una ricchezza che le renda competitive  sui mercati internazionali, soprattutto in quelli del centro-Nord europeo. Spetterà allo Stato nazionale tramite un efficace Senato delle Regioni, piuttosto che attraverso la squilibrata gestione dei poteri della Conferenza Stato-Regioni, coniugare il confronto ed il controllo del finanziamento delle politiche territoriali,garantendo il necessario sviluppo unitario nazionale. E’ il principio di responsabilità quello che deve essere alla base delle politiche territoriali e nazionali. Lo spirito democratico repubblicano presuppone l’alternanza che si può realizzare soltanto dove la responsabilità è certa, e quindi venga valorizzata; il secondo grande principio è quello della rappresentanza democratica che è parte integrante del principio di responsabilità. Alla sovranità popolare occorre restituire il ruolo che le riserva la Storia europea e cioè quello di essere esercitata attraverso rappresentanti responsabili, anche individualmente, delle loro scelte. La rappresentatività è dunque un principio ineludibile per la democrazia sociale. Dubito fortemente che si possa aggirare la riforma della Costituzione per progettare incisive riforme. Apparteniamo ad una grande nazione. Con difficoltà siamo giunti al capolinea di quel lungo percorso che siamo stati obbligati ad intraprendere nel secolo corto, il ‘900, così ricco di ideologia e così funesto per le terribili guerre e per i crimini liberticidi che lo hanno segnato. L’Italia ha attraversato il secolo passando dalla fame alla obesità, dalla disperazione della emigrazione alla ricchezza di pochi stati al mondo, dall’analfabetismo alle eccellenze culturali e scientifiche. Ci basta soltanto volere guardare al futuro senza angoscia ma con la preoccupazione di chi conosce gli ostacoli, per dare al paese, nel suo contesto europeo, una legge costituzionale degna delle libertà individuali, delle ricchezze sociali, dei diritti e dei doveri di uomini e donne liberi nell’ordine del XXI secolo, che la storia, la tradizione, i meriti acquisiti e quelli che conseguiremo, ci spronano a realizzare. L’on. Berlusconi, rispondendo all’on. Fini, ha assicurato che tutte le grandi riforme saranno varate cercando prioritariamente il consenso tra le parti politiche e sociali. Il che offre alla vista un panorama diverso di quello del 2001, quando le sinistre al Governo proposero ed ottennero influenti variazioni costituzionali con un voto di risicata maggioranza. Mettiamo da parte la nota frase ipocrita: “la Costituzione Italiana è la più bella e moderna del mondo, non va toccata ma realizzata”. Bella e moderna per la sua epoca lo fu davvero la Costituzione Repubblicana, ma i tempi sono cambiati. Diamoci da fare per scriverne una nuova, senza tabù e, magari, senza paura di una Assemblea Costituente.

 

 

Giuseppe Scanni

Politologo ed esperto in Relazioni Internazionali