Il carcere senza sbarre

Giovanna Rezzoagli

“Anziani con problemi psichiatrici legati con fasce e cinghie ai letti, o chiusi a chiave nelle stanze. Anziani malati di Alzheimer ‘dimenticati’ e lasciati liberi di allontanarsi dalle strutture per poi essere ritrovati morti, come accaduto nel viterbese. Anziani che a pranzo e cena mangiano cibi scaduti ed ai quali vengono somministrati medicinali non piu’ validi. E’ un quadro allarmante quello portato alla luce da una mega-indagine a tappeto dei carabinieri dei Nas sulle residenze per anziani in tutta Italia: 863 le strutture di assistenza controllate e 238 quelle risultate irregolari. E dai Nas, un consiglio: ”Per prevenire gli abusi, parlate tanto con i vostri congiunti””. Ho preso questa notizia dal sito dell’Agenzia Ansa, pubblicata poche ore fa. Ho riportato puntualmente il testo, perché è in tutto e per  tutto fedele alla realtà. Una realtà che conosco molto bene avendola vissuta in prima persona per dieci anni. E’ verissimo che si legano al letto gli anziani affetti da demenza senile, è verissimo che li si contenziona per tutelare la loro sicurezza. In alcuni istituti si legano al letto perché così non disturbano, attenzione non gli altri degenti, bensì gli operatori in turno, che a loro volta magari sono al lavoro dal mattino, hanno fatto pausa nel pomeriggio ed ora sostengono il turno di notte. Non accade questo in tutti gli istituti, ma in molti, purtroppo sì. Il mio primo  impiego lo svolsi in una splendida struttura vicino al mare , bellissima villa dotata di ampio parco e di grandi scantinati. Un inferno. Gli scantinati erano stati trasformati in camere a tre posti riservati ai pazienti “difficili”. Era il lontano 1998, avevo 23 anni , avevo energie e coraggio da vendere, eppure resistetti solo sei mesi in quell’incubo. Con i miei requisiti trovai subito lavoro vicino casa e lì rimasi sino alla chiusura dell’attività, avvenuta nel marzo 2008. Fummo licenziate in soli cinque giorni, per noi non si mosse nessuno, ma d’altronde non ci passò nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea, oggi di moda, di salire sul tetto e rimanerci sino a soluzione trovata. A me fu proposto un lavoro in una struttura lontana da casa mia 44 km, dissi no grazie dopo una spaventosa serata passata a piangere di fronte all’idea di non potermi più occupare dei miei cari come avevo sempre fatto, stringendo i denti. Trascorsi i successivi due mesi ad inoltrare curriculum vitae, poi improvvisamente mi arrivarono ben sei offerte di lavoro, scelsi la più vicina a casa e conobbi il paradiso del lavoratore: superiori gentili e cortesi, turni regolari ed umani, stipendio dignitoso. Durò tre mesi poi un destino cattivo mi costrinse a licenziarmi e a dedicarmi alla mia famiglia. Storie come la mia, chissà quante. Storie come quelle che si sono intrecciate alla mia, vite devastate dalla malattia, dalla vecchiaia, dalla solitudine, chissà quante. Le istituzioni continuano a trascurare i problemi legati all’istituzionalizzazione tanto dei malati che degli operatori, sottovalutando di conseguenza il rischio burnout. Questa fenomenologia è ben nota da anni e, in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, il burnout  è considerato un vero e proprio rischio professionale, da combattere ed arginare attraverso campagne di informazione e, soprattutto per le categorie a rischio, con supervisioni e corsi di aggiornamento. Si è fatto, e si fa ancora, tanto rumors attorno all’opera di Franco Basaglia e alla legge che porta il suo nome. Ma quanti di coloro che aprono bocca sull’argomento hanno vissuto sulla propria pelle la sofferenza di chi vive in questi carceri senza sbarre? Strutture di cui anche io facevo parte, strutture in cui sono stata picchiata, insultata, amata immensamente da creature abituate a ricevere schiaffi dalla vita e non solo. Le persone fuori da questo mondo spesso non immaginano neppure cosa si cela dietro le linde facciate ed i nomi poetici di questi luoghi. Non tutti, ovviamente, ma troppi sicuramente sì, come ha evidenziato il rapporto dei NAS. Il punto è dato dal rifiuto della malattia e della finitudine dell’esistenza da parte della nostra altezzosa società, illusoriamente convinta di essere protetta dal dolore e dalla morte, verosimilmente impreparata ad affrontare il costante aumento della popolazione anziana, drammaticamente non in grado di rapportarsi con le patologie psichiatriche.

2 pensieri su “Il carcere senza sbarre

  1. Gentile amica Giovanna Rezzovaglia,
    Oltre a ciò che ella ha giustamente evidenziato circa la precareità in cui vivono alcuni anziani in certi ospizi, occorrerebbe notare anche la tristezza di tanti pensionati che, dopo aver lavorato per l’intera vita , non sanno proprio come trascorrere le proprie ore all’aperto:
    Transitando per la piazzetta della Madonna del Carmine, si notano spesso vecchietti che , per farsi una partita a carte , si devono peigare in mille modi su quelle pietre artistiche li presenti. Credo che , come minimo, ci vorrebbero degli appositi tavolini con panche in modo da facilitare l’unico divertimento che resta e che il comune dovrebbe provvedere per dare ristoro a tanti anziani che hanno contribbuito , più degli altri, a far migliorare questa nostra società. Cordiali saluti.

  2. Gentilissimo Signor Alfredo Varriale, io parlavo delle case di riposo perchè vi ho trascorso anni di duro lavoro e, pertanto, è una realtà che conosco bene. Lei giustamente sottolinea che anche chi vive da solo soffre, il problema sociale è enorme. Io sono counselor specializzato in scienze sociali, con esperienze di conduzione di gruppi di clienti in età geriatrica. Per vivere bene nella terza età occorre inventarsi un ruolo nuovo, crearsi un hobby, cercare di frequentare le altre persone. Mantenere attivo il nostro cervello è fondamentale. I comuni stanno rivalutando questo aspetto della vita, almeno qui al nord. Grazie per il Suo gentile commento. Buona notte.
    Giovanna Rezzoagli

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