Il violino di Rotschild

Salvatore Ganci

C’è ancora qualcuno qui che ricorda quei deliziosi libriccini della Biblioteca Universale Rizzoli, spartani nella copertina grigia e la carta un po’ ruvida che, tra gli anni 50 e gli anni 60 si acquistavano avidamente per quel loro costo che andava dalle cento lire alle quattrocento lire? La mia gioventù si è modellata su questi libri, e, in questo momento in cui la casa è vuota, cercando nello sgabuzzino delle carte dismesse, in mezzo ai miei appunti di Istituzioni di Fisica Teorica, ritrovo un libro della BUR di allora, maleodorante di umidità e di tanti anni passati, senza rendermi conto di essere qui, ora. Ironia della sorte, ritrovo uno dei dodici volumi dei racconti di Anton Cechov, magistralmente tradotti da Alfredo Polledro con la stessa nota introduttiva sull’Autore ripetuta dodici volte: “Cominciò con la barzelletta e finì con l’angoscia …”. Apro verso il fondo, come se ci fosse un segnalibro invisibile, e ritrovo “Il violino di Rotschild”, uno dei racconti più amari, non tanto incentrato sulla “fotografia fedele” della psicologia individuale dei personaggi. Qui, la storia è quasi banale; la morte imprevista di Marfa, la moglie del protagonista Jakov, artigiano costruttore di bare e violinista “a richiesta”, e la successiva morte del protagonista stesso pochi giorni dopo: probabilmente di tifo entrambi. Lo scenario: quello di una Russia che procedeva a rilento dalla liberazione dalla “servitù della gleba” (e correva quindi velocemente verso la rivoluzione di ottobre). Non ho potuto non rileggere questo racconto che descrive un uomo tanto segnato da una vita fino ad averne né consapevolezza né memoria; fino a realizzare la bara a misura per la moglie ancora morente, segnando due rubli e 40 copechi nel quaderno delle perdite …  Eppure quando anche Jakov, che scaricava abitualmente la sua rabbia sul povero Rotschild, suonatore di flauto e colpevole solo di essere Ebreo, arriva a sentire la febbre e la presenza della morte, all’improvviso rivive la sua vita, la durezza sempre dimostrata con Marfa e persino di ricordare una piccola bimba bionda, sua figlia, morta così prematuramente e scomparsa persino dalla sua memoria … Anche questo era stato dimenticato, mentre si faceva strada il pensiero  che dalla morte non avrebbe avuto altro che vantaggio: non bisognava più né mangiare né bere, né pagare le tasse,  né offendere la gente e … poiché l’uomo giace nella sua piccola fossa per migliaia e migliaia di anni, … se si fosse fatto il conto, ne sarebbe risultato un vantaggio enorme. E allora il violino di Jakov comincia a suonare, mentre il povero Rotschild si avvicina timoroso e arriva fino a una tesa da lui,  rapito dalle note che sgorgavano senza fine. Quando, la sera, il prete gli chiede se avesse qualche peccato sulla coscienza, Jakov, sforzando la memoria che si indeboliva, tornò solo a rammentarsi il viso di Marfa morente e il grido disperato di Rotschild cui, giorni prima,  aveva aizzato contro un cane. E cede all’ultimo “passivo” della  vita, dicendo solamente al prete: “Il violino datelo a Rotschild”.E così tutti si chiedono da dove sia venuto a Rotschild un così bel violino, e perché non suoni più il flauto, ma sempre quelle note che erano sgorgate dal violino di Jakov e che toccano tutti così tanto nel profondo … Dalla vita viene all’uomo la perdita, dalla morte l’utile. A volte, anche questo può essere vero.