Negazionismo e verità

 Fulvio Sguerso

Le “giornate della memoria” hanno se non altro il merito di  riproporre domande sul perché siano potute accadere tragedie storiche così enormi e mostruose, proprio nel cuore della civile Europa contemporanea, come la pianificazione   della cosiddetta  “soluzione finale del problema ebraico”,  del genocidio di minoranze etniche come gli zingari, della soppressione dei minorati fisici o psichici, nonché degli omosessuali,  in nome della pretesa superiorità razziale  del popolo tedesco teorizzata nel Mein Kampf di Hitler e negli scritti di Alfred Rosenberg; e sul come sia possibile addirittura negare che tali tragedie siano realmente accadute. Esemplare è il caso del negazionista Louis Darquier de Pellepoix, all’epoca commissario addetto alle questioni ebraiche presso il governo di Vichy, ricordato nel primo capitolo de I sommersi e i salvati di Primo Levi: “Darquier nega tutto: le foto dei cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche dei milioni di morti sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità, di commiserazioni e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche state, ma lui non sapeva verso dove e con quale esito; ad Auschwitz le camere a gas c’erano sì, ma servivano solo per uccidere i pidocchi, e del resto (si noti la coerenza!) sono state costruite a scopo di propaganda dopo la fine della guerra. “ I negazionisti non si lasciano certo impressionare dai documenti, dai filmati, dalle testimonianze dei sopravissuti, dai memoriali, o dalle deposizioni di Eichmann nel processo di Gerusalemme, o dalle confessioni di ufficiali e funzionari nazisti come Stangl di Treblinka o Rudolf Hoss di Auschwitz: i documenti, cartacei o visivi che siano, possono essere falsificati; le testimonianze faziose, di comodo, comprate o addirittura estorte; i memoriali, i diari, le autobiografie non attestano altro che ricordi, emozioni, suggestioni, sentimenti e risentimenti privati e soggettivi, quindi di nessun valore probatorio. Insomma – come ha risposto senza batter ciglio monsignor Williamson a chi lo accusava di ciarlataneria e di antisemitismo – dove sono le prove del genocidio perpetrato dai nazisti? Eh già, dove sono le prove della verità del mio, o del tuo, del nostro o del loro discorso? In fondo si tratta pur sempre di parole, e perché mai le mie dovrebbero valere più delle tue o viceversa? Tra queste nondimeno ce n’è una fondamentale per il significato e il valore di tutte le altre, ed è giustappunto la parola “verità”. Che cos’è la verità (lo chiedeva già Pilato a Cristo)? Questa domanda però presuppone che ci sia la verità, mentre qui si mette in questione è proprio l’esistenza della verità in sé, o meglio di una verità certa, oggettiva, incontrovertibile e assoluta: Dunque la domanda va riformulata così: esiste la verità? Ma come è possibile rispondere affermativamente senza presupporre la conoscenza della cosa di cui dubitiamo, ammettendo quindi di possedere la, o quantomeno una verità? Se invece rispondessimo negativamente, su quali basi, con quale criterio potremmo decretare la non esistenza della, o di una verità se non presupponendo che sia vera la nostra negazione? Come si vede anche questa seconda formulazione va corretta, per esempio così: che cosa significa per me la parola verità? Ecco che ora non posso più sfuggire dalla definizione di quello che per me significa “dire la verità”. Vediamo: per me dire la verità significa dire non solo quello che veramente penso, ma anche che quello che penso è vero. E qui nascono ulteriori difficoltà: se è senza dubbio possibile, anche se non sempre facile, dire quello che veramente penso, come possiamo essere certi che quello che pensiamo è vero? Io, per esempio, posso credere che il mondo, questo mondo in cui mi trovo ora, finirà quando mene andrò all’alto mondo, e sarebbe un’opinione come un’altra, non priva però di conseguenze pratiche. Se infatti sono persuaso che il mondo abbia un senso solo in relazione alla mia persona, agirò in certo  modo; se invece sono persuaso che il mondo non nasce e non muore con me, ma che io sono nato e morirò in un  mondo che anch’io, per la mia parte, contribuisco a creare o a distruggere e che, in un certo senso, ci sono tanti mondi quante sono le persone, forse agirò in un modo diverso. Il rapporto tra discorso e verità non riguarda allora soltanto la teoresi ma coinvolge la prassi, quindi la morale, la società, la storia, la politica, le passioni, l’arte e, insomma, quello che il filosofo ebreo Edmund Husserl chiamava lebenswelt “mondo della vita”. E i negazionisti in quale rapporto si trovano con la verità? Riesce arduo pensare che non credano in quello che dicono, anche perché si espongono, oltre che al dispregio degli storici di mestiere (dipregio peraltro ricambiato), in alcuni paesi, tra i quali, e pour cause, la Germania e l’Austria, a sanzioni penali e ad oltraggi verbali e talora fisici in aggiunta. Dunque perché tanta ostinazione nel negare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei che sarebbe sicuramente proseguito se non fosse finita la guerra? Quali profonde ragioni e quali alti ideali li spingono a un’indefessa, defatigante e senza dubbio frustrante attività di ricerca per “smascherare” la “grande bugia” dell’Olocausto? Quand’anche riuscissero a convincere il mondo intero che le camere a gas e i sei milioni di ebrei “passati per il camino” non sono che un’invenzione propagandistica degli Alleati e delle lobby ebraiche internazionali per giustificare la creazione dello Stato d’Israele, che cosa dovremmo dedurne? Riabilitare Adolf Hitler? Riesumare i criminali nazisti condannati a Norimberga per dar loro più degna sepoltura? Istruire una nuova Norimberga, questa volta per processare i crimini degli Alleati? Riscrivere tutti i libri di storia e mandare al macero il Diario di Anne Frank, le opere di Primo Levi, di Bruno Bettelheim, di Elie Wiesel, di Edith Stein, di Hannah Arendt e di Simon Weil che aveva previsto e denunciato la barbarie nazista prima di tanti altri? Avremmo finalmente ristabilito la così e lungo e colpevolmente occultata verità storica? Già, peccato solo che le interpretazioni delle verità storiche, proprio in quanto tali, non siano assolute ma relative. A che cosa? A tante cose: per esempio, alla cultura dominante e ai rapporti di potere vigenti in una determinata società. Dunque anche la “verità” dei negazionisti avrebbe bisogno, per imporsi, di un contesto culturale razzista e antisemita. E’ questo che sognano i negazionist? Hanno almeno l’onestà intellettuale di professarsi razzisti e antisemiti? Sono essi in grado di ammettere questa loro verità?