Le parole che fanno bene

Giovanna Rezzoagli

La comunicazione tra due o più persone utilizza tre specifici canali: verbale, non verbale, paraverbale. Ciò vale ovviamente per tutte le interazioni comunicazionali che avvengono in un ben preciso contesto temporo-spaziale, in parole povere in tutte le occasioni di incontro concreto tra noi e le altre persone. Un assunto fondamentale alla base della Psicologia della Comunicazione è dato dall’evidenza che è impossibile non comunicare. Il canale verbale, le parole che pronunciamo ed ascoltiamo, trasmettono una piccola porzione del messaggio che eventualmente vogliamo trasmettere: il 7% circa. Tutto ciò che attiene al paraverbale, ovvero l’insieme delle caratteristiche associate all’utilizzo della voce, viene solitamente compreso a livello emozionale, può trasmettere circa il 38% di una comunicazione. La porzione più corposa di uno scambio (circa il 55%) viene trasmessa attraverso il canale non verbale della comunicazione, prevalentemente mediante il linguaggio del corpo e la mimica facciale (ma anche attraverso elementi che potrebbero sembrare meno incisivi, come ad esempio lo stile di abbigliamento), anche questi messaggi vengono decodificati a livello emozionale e la maggior parte di essi sono colti a livello subliminale. Fatta questa premessa tecnica, necessaria per comprendere come l’essere umano comunica, può essere interessante riflettere sulla qualità degli scambi comunicativi che ciascuno di noi ogni giorno, volente o nolente, attiva e riceve. Una prima osservazione è data dall’apparente indifferenza che sembra circondare le persone specialmente in contesti di scambio piuttosto ampi come quelli che offre la vita in grandi centri abitati, nella folla, in gruppi composti da più di cento unità: le interazioni sono improntate alla formalità e si mantengono superficiali, con scarso o nullo scambio emotivo. In realtà il nostro cervello elabora moltissimi segnali al secondo, mantenendo costantemente all’erta il meccanismo attacco-fuga atavico ma pur sempre salvavita. Lo stress aumenta e parallelamente il bisogno di comunicare. Bisogno primario per il benessere psicofisico,sin dai primi istanti di vita. Oggi siamo tutti frustrati da ritmi frenetici che non lasciano spazio all’ascolto nemmeno di noi stessi, figurarsi di chi ci circonda. Eppure tutti siamo alla ricerca di qualcuno che ci ascolti, autenticamente. E non lo si trova tanto facilmente. Quante volte aspettiamo una parola buona, quella che non costa nulla e tanto dona? E quali sono le parole buone, quelle che fanno bene, quelle che scaldano il cuore e carezzano l’animo? A volte sono quelle di un perfetto sconosciuto col quale si divide un pezzetto di vita, magari seduti vicini in una sala d’attesa del pronto soccorso, oppure del compagno della tua vita che in un istante comprende ciò che non si ha mai detto. Sono spesso parole che non vengono pronunciate, ma che silenziose ti accompagneranno per sempre. Nascono dall’incontro di due pensieri che vibrano all’unisono, anche solo per un istante. Nel Counseling si chiama empatia, nella vita di tutti i giorni mi piace pensare che sia il delicato soffio di un vento che asciuga lacrime silenziose.

9 pensieri su “Le parole che fanno bene

  1. Buongiorno Counselor Rezzoagli.
    E’ con molto interesse che ho accolto e letto questo suo nuovo contributo alla comprensione delle nostre professioni, ricorderà che anche io sono un suo collega “Counselor Filosofico”.
    Nel farle i complimenti riguardo all’importante tematica trattata in questo suo articolo, mi sento di sottolineare ciò che lei, magistralmente, ha dato ad intendere e cioè l’importanza che assume in una Relazione d’aiuto condotta da noi Counselors nei confronti dei clienti, che deve essere incentrata essenzialmente sulla qualità, di non semplice attuazione, di una fattiva empatia. L’empatia è quel “mettersi nei panni di”, senza però giudicare e farsi coinvolgere, senza farsi trascinare nelle reti dell’altrui sofferenza, ma accoglierla e rispettarla, cercando con l’interlocutore sofferente, i suoi punti di forza personali dai quali partire per poter poi adeguatamente attraversare il dolore e trasformarlo energeticamente in benessere. Il viaggio verso la libertà esistenziale parte dunque da questo. Dalla nostra accoglienza empatica dell’empasse del consultante per condurlo, Dante docet, attraverso i tre stadi di sofferenza, metabolizzazione e redenzione (ossia benessere ritrovato).
    Grazie ancora per i suoi apprezzati insegnamenti.
    Cordialmente.
    Francesco Iannitti

  2. Gentilissimo Francesco, certo che mi ricordo di Lei. E’ un vero onore ricevere i commenti di un Collega con cui si condivide un percorso comune. Il Suo intervento estremamente puntuale e pertinente valorizza il mio scritto. Comunicare: noi Counselors abbiamo questo grande strumento, che però risulterebbe sterile se non accompagnato dalla famosa “empatia”. Quando frequentavo la Scuola di Counseling, a noi studenti veniva detto, oggi direi iculcato, che l’empatia si può apprendere. Se mi posso permettere, credo che sia più appropriato affermare che l’empatia si può affinare, ma non è prevalentemente un dono? Affermo ciò perchè credo che non tutti possano eticamente esercitare il Counseling, e perchè credo che non tutti i Docenti siano abbastanza franchi su questo punto con i loro allievi.Il vento delicato tutti lo avvertiamo sul viso, ma quanti di noi sanno da che parte arriva?
    Grazie carissimo Collega, mi piacerebbe molto avere un Suo parere su ciò, alla luce anche della “Questione morale” che quantomai s’impone per chi oggi si professa counselor.
    Con tanta stima.
    Giovanna Rezzoagli

  3. Pregiatissima Collega,
    La ringrazio per la Sua risposta.
    Concordo con Lei in merito alla difficoltà di apprendere l’empatia, essa infatti, anche secondo me, non può essere “inculcata”, né tantomeno insegnata, ma bensì, come dice lei, affinata e aggiungerei praticata. Cosa voglio dire con questo? Dico che sempre più spesso ci troviamo difronte a colleghi professionisti che piuttosto che “ascoltare”, tendono a concentrarsi, narcisisticamente, su ciò che loro vogliono dire al cliente, di fatto non solo non empatizzando ma, venendo meno ad un principio fondamentale che contraddistingue la nostra professione, cioè quella di non essere dei “risolutori”, bensì dei facilitatori, coloro che si prendono “cura di” ed accompagnano, rispettando la “visione del mondo” in toto del consultante, per ritrovare il suo proprio benessere.
    Mi chiede in fatto di Etica, cara Collega, che dirLe quella è ancora più difficile da realizzare, soprattutto da parte di chi, pretende tout-court e senza passione di definirsi Counselor solo perché ha conseguito un titolo e non perché sente di avere altresì una “missione” da compiere per il bene della comunità al di là degli interessi personalistici di autostima referenziale professionale.
    Grazie per Le sue preziose parole e per la possibilità che ci dà per poter riflettere un momento in più su quanto di utile quotidianamente, con professionalità e deontologia, noi Counselors facciamo.

  4. Gentilissimo Francesco, sono molto lieta di questo scambio, che spero possa essere utile anche ad altri, visto che tocca un tema delicatissimo in tutte le professioni: l’etica. Mi permetto di raccontare, a Lei e a chi ci legge un piccolo episodio accadutomi ieri. Al mercoledì mattina opero come volontaria presso il “Tribunale per i Diritti del Malato”, in Sestri Levante, e proprio ieri è venuto in ufficio un Signore che aveva necessità di informazioni circa la reperibilità futura di un farmaco per lui vitale che rischia di essere tolto dal mercato italiano. Non ho potuto rassicurarlo circa il suo problema “contingente”, eppure averlo ascoltato nei suoi timori gli è parso importantissimo. Io non ho fatto niente più che un paio di telefonate e dedicatogli alcuni minuti, ma questo Signore voleva a tutti i costi pagare il mio intervento, non si capacitava che fossi stata a sua disposizione gratis. Caro Collega, anche questo è Counseling, forse più che mettersi dietro ad un tavolo e soprattutto dietro un titolo. Questo è ciò che nessuna scuola ti insegna: vivere una professione eticamente. Lo so che non è più di moda, ma si vede che con i miei trentasette anni sotto sotto sono ancora adolescente utopista, o forse sono solo troppo vecchia e disillusa per credere nelle lusinghe dei titoli, l’abito non fa il monaco. L’etica è fondamentale per tutti, per chi esercita la nostra professione, caro Collega, dovrebbe essere tutto. Come ci si può proporre come sostegno se non si è ben integri moralmente? Guardarsi allo specchio e non vergognarsi di niente è l’unico lusso cui non potrei rinunciare. Grazie carissimo Collega, per i Suoi preziosi interventi. Ho molto da imparare da chi, come Lei, ha molto da insegnare.
    Con viva gratitudine.
    Giovanna Rezzoagli

  5. Gentilissima Counselor Giovanna,
    sono io a doverla ringraziare per le sue perle di saggezza in merito di questa meravigliosa ed importante professione di Relazione d’aiuto che è appunto il Counseling.
    Nel pregiarmi della sua amicizia virtuale e della gentilezza di questo sito che ospita articoli così interessanti, como i suoi, la invito a prendere visione, se lo vorrà, del mio nuovo articolo che è stato pubblicato proprio oggi, che tratta il “Counseling Filosofico” con uno stile di scrittura semi-serio.
    Spero possa essere di suo gradimento e magari dei gentili naviganti e frequentatori di questo sito.
    link articolo: http://www.gazzettaweb.net/it/journal/read/Discorso-semi-serio-sul-counseling-filosofico.html?id=179

    Cordialmente
    Francesco Iannitti

  6. Carissimo Francesco, la descrizione che Lei offre del nostro lavoro, tra un sorriso e una riflessione, è ,molto efficace. I “perchè” rivolgersi ad un Counselor sono molti, il problema è che non li si conoscono. Io per prima non avevo idea di che cosa fosse il counseling, e ho impiegato un anno buono di studi per concludere che non ero ancora del tutto ammattita ad essermi imbarcata in tal questione. Oggi se qualcuno mi chiede che lavoro svolgo, mi diverto a rispondere che sono un Counselor, i più onesti mi chiedono cosa sia, gli altri fanno finta di saperlo, poi qualcuno che davvero sa cos’è mi chiede dove esercito. Conclusione: ho studiato per mettere alla prova la sincerità altrui… no ora ritorno seria, adesso io per prima so quanto possa offire la nostra professione, per questo cerco di mettere in pratica ciò che ho appreso, per ora nel volontariato, poi spero che qualcuno inizi a conoscere il nostro lavoro. Complimenti, gentile Collega per il Suo scritto. Spero che avremo modo di confontarci su tanti argomenti, col nostro scambio credo che si abbia offerto un esempio di discussione aperta, consapevole e sincera.
    Con tantissima stima
    La sua collega ora meno sola
    Giovanna Rezzoagli Ganci

  7. Ho letto con interesse il vostro reciproco commento. E’ una vera lezione di dibattito sereno e costruttivo.
    Mi dispiace che la vostra professione non sia regolamentata in Italia o forse l’Italia è in difetto nei confronti dell’Europa? Di ascolto costruttivo c’è molto bisogno e meno di giudizi. Per vicende personali del passato uno “psicologo” nominato come C.T.U. mi bollò come “ossessivo” per la mia precisione nel dirgli l’ora (senza altri strumenti di diagnostica)e da allora vivo convinto che la mia precisione nel lavoro sia solo “ossessività” mentre in un omologo ufficio di Tokio sarei considerato magari un impiegato “poco preciso”. Auguro ad entrambi che la/le associazione/i alla/e quali afferite si diano maggiormente da fare per un riconoscimento della vostra professione. L’azione di “riflessione indotta” (mi sembra d’avere compreso) di un Counselor, potrebbe sanare problemi relazionali che alle lunghe potrebbero sfociare in lite violenta o guidare a scelte serene e consapevoli. In ogni caso a scelte non traumatiche e/o conflittuali. Ciò di cui c’è molto bisogno, specie quando una coppia decide di separarsi, spesso con atteggiamento di irresponsabilità nei confronti dell’altro e dei figli.
    Auguri ad entrambi con la massima stima
    Giangastone

  8. Carissima Giovanna, innanzitutto è doveroso fare le mie scuse per alcuni miei errori ortografici commessi nel mio precedente commento, ero molto di fretta come al solito!
    La ringrazio per le parole che mi riserva rispetto al mio articolo e sono convinto che la gente sta sempre più diventando consapevole delle differenze tra i vari professionisti, che sono complementari e non sostitutivi di, e quindi la possibilità di libertà di scelta di chi fattivamente possa poi aiutarli rispetto al problema che accusano.
    E’ capitato spesso anche a me che mi si chiedesse cosa fosse il Counseling e con molta pazienza, ho visto gente interessatissima alla nostra professione perché, a detta loro, hanno finalmente scoperto ciò che gli serviva per poter essere aiutati in quel preciso momento.
    Resteremo senz’altro in contatto perché conoscere una professionista impegnata come Lei la considero una ricchezza, soprattutto oggigiorno che non si fa altro che parlare di mancanza di valori.
    Eccoci, noi siamo qui, virtuali ma reali a testimoniare quanto realmente empatici possano essere i Counselors.
    Grazie ancora, cara Collega.
    A presto
    Francesco Iannitti

  9. Egregio Giangastone,
    mi permetto di risponderLe perché chiamato in causa.
    La ringrazio per i complimenti e Le dico che purtroppo in merito al riconoscimento della nostra professione, in Italia, siamo in indecente ritardo; infatti nel resto del mondo, Stati Uniti ed Europa in primis, la professione del Counselor è riconosciuta ed adeguatamente normata, nonché completamente dissociata da quella dello psicologo, che è tutt’altro.
    Il Counselor si occupa di benessere esistenziale, non di cura patologica mentale; si occupa di “prendersi cura di”, non di terapia; si occupa di facilitazione nei rapporti interpersonali, non di riabilitazione. Spiegarsi a volte non è semplice ma sono solito fare un esempio: quando ci viene a mancare una persona cara, soffriamo, questo è normale; a chi rivolgersi dunque in una situazione simile quando non si riscontrano patologie mentali, ma naturale sofferenza dovuta alla perdita di una persona cara? Ebbene, il Counselor è il SOLO che possa occuparsi di questa fase, presa a mero esempio. Anche gli esempi che fa Lei, riguardo a relazioni conflittuali, sono di pertinenza del Counselor e l’argomento per una migliore gestione della collaboratività sociale e lavorativa va sotto il nome di “Assertività”.
    Non entro volutamente nel merito di chi l’ha etichettata “ossessivo”, ma ciò che leggo qui nel suo commento è di una persona, colta, gentile, intelligente e rispettosa… what else? (direbbe George Clooney)
    La ringrazio per l’attenzione.
    Cordialmente
    Francesco Iannitti

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