Epitaffio per un Maestro

Salvatore Ganci

Ricordo che arrivasti da noi all’inizio della quarta, ed era un po’ difficile che rimanessi “non notato”. Un ometto di piccola statura, magro e con occhiali da miope a lenti tonde che rendevano minuscoli quei due occhi azzurri e penetranti, un aspetto fisico che, ironia della sorte, ricordava di profilo Voltaire da vecchio. Eppure avevi appena 54 anni e sembravi vecchio vent’anni di più. E probabilmente anche la voce gracchiante e graffiante faceva parte di una reincarnazione perfetta di quel François che minava non poco alcune tue certezze di Fede. Sotto la tua tonaca stazzonata le tue mani continuavano a cercare il pacchetto di “Parisiennes” che nei momenti di pausa aspiravi voracemente rendendoti, per fortuna, più umano. Di una cultura profonda che profondevi con una scioltezza impressionante, presto soprannominato “Pico de Paperis” da noi tutti.  La tua lezione di Latino durava in pratica una ventina di minuti, gli altri quaranta minuti erano una galoppata lucida, documentata, profonda su alcuni temi di Filosofia e di Storia connessi spesso con la storicità del Cristo e delle Scritture. I miei compagni “saggi” dormicchiavano con indifferenza, preoccupati solo di cosa volessi “sparare” di Orazio la volta dopo. Già dalla prima volta si capì subito che la musica era cambiata, e cambiata bruscamente: il carme “Persicos odi, puer apparatus” (ricordo bene? Era una “saffica”?) fu affibbiata a memoria e in metrica, senza sconti e senza complimenti per l’indomani. Quante lagnanze e mugugni … eppure iniziai allora a gustare una materia subita con indifferenza fino alla fine della terza. E se non ricordo male, neppure io passai inosservato, visto che fui il primo ad essere “beccato” la volta successiva. E finalmente il Latino iniziò a sorridermi sotto la sferza dei tuoi colpi duri ma mai offensivi. Eh già, l’avevi capito subito che il banco dei “dissidenti”, quelli che non entravano in Istituto passando dalla chiesa, eravamo io e il mio compagno di banco V. Furono i due anni che mi formarono come uomo e in quel che di buono posso essere diventato lo devo solo a te come Uomo e come Docente: il mio Maestro in un senso che non condivideresti perché confinato dentro una tonaca nera stazzonata. Nei due anni che hai passato da noi ricordo che una specie di smorfia (il tuo migliore sorriso) venne da quel “piccolina mia, dai limpidi pensieri” con cui tradussi troppo liberamente  Leuconoe del carme “Carpe diem”. Di te non hai mai parlato, tranne l’umana debolezza di “farti scappare” che era il settimo premio Amsterdam di Poesia Latina che vincevi. Feroce con gli “intellettuali” che incrociavano ogni tanto la tua via (“genius loci” era l’appellativo migliore). A quel tempo Rapallo era una fucina di idee con il suo circolo universitario e le iniziative culturali che il periodo economicamente favorevole degli anni 60 favoriva, eppure nonostante un certo “narcisismo dell’essere” disdegnavi spesso gli inviti, preferendo dire “messa al campo” ai minatori della Val Graveglia, quando lì si cavava fuori ancora un po’ di Manganese. Come un vero Maestro,  il tuo insegnamento vero lo hai trasmesso con la voce e con l’esempio a chi sapeva ascoltarti. Ho dovuto attendere l’avvento di Internet per incontrarti fugacemente e perderti di nuovo per disattivazione del sito curato dai tuoi studenti del Liceo Gallio di Como dove eri tornato alla fine degli anni ’60. Apprendo così che eri nato nel 1910 a Villaraspa di Mason in provincia di Vicenza e che dopo avere studiato, praticamente da autodidatta sotto la guida del parroco, frequentasti a Milano il corso ginnasiale in un anno in meno del previsto ordinamento. Come postulante dei Padri Somaschi, diventasti Sacerdote nel 1933, dopo avere conseguito a Genova il Diploma liceale. Giusto in tempo per partire come Tenente cappellano nella guerra d’Albania dove la ferita ricevuta ti condizionò per tutta la vita ma non ti dissuase dal continuare la dolorosa campagna di Russia. Eri sul Don, probabilmente non tanto distante da Don Gnocchi. Unico tra gli ufficiali superstiti del tuo battaglione sapesti ricondurre indietro alla salvezza una schiera di soldati, sorretti più dalla tua parola che dalle tue forze. Terminato l’orrore di una guerra inutile e dolorosa come tutte le guerre,  riprendesti l’insegnamento, conseguendo  in breve la Laurea in Lettere a pieni voti presso l’Università di Milano, e quella di Filosofia quasi contemporaneamente presso l’Università di Genova. Il tuo insegnamento si svolse alternativamente nei licei retti dai Padri Somaschi di Nervi, di Rapallo e di Como, di diventasti anche preside. Fosti chiamato ad insegnare Lingua Latina presso l’Università Cattolica di Milano, per alcuni anni e, come risulta, svolgesti come tuo “naturale costume” dei temi che tendevano a far degli alunni, non solo dei capaci e validi lettori dei poemi latini, ma anche dei docenti esperti. Perché  pur avendo tu raggiunto le più alte vette della conoscenza della Letteratura, una pronta capacita critica e una disinvoltura nell’uso della Lingua Latina (che ti era diventata familiare come la tua lingua materna), sei riuscito a portare  fuori dalle più o meno paludate aule accademiche il Latino, e a renderlo accessibile a tutti i volonterosi. Mi addolora ancora oggi avere  appreso delle indicibili sofferenze che precedettero la tua morte il 3 maggio 1976. Non resto per nulla meravigliato che il mio Maestro,  fino a due settimane prima della morte, ancora tenesse lezione, portato quasi a peso in classe. Ecco chi era Padre Giovanni Battista Pigato, alpino, Sacerdote e Latinista, classe 1910.

 

Un pensiero su “Epitaffio per un Maestro

  1. Sono appassionato di metrica latina,possiedo “opere poetiche latine” di P.Pigato. Sto leggendo “De iis qui mortem oppetivere scientiarum provehendarum studio”: stupefacente!

    Vivo a Como quasi in esilio, sono di Spoleto.

    Cordialmente.

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