Io Detenuto vi dico: fateci lavorare!

Salvatore Ganci

E’ un fatto più unico che raro che  il quotidiano di Genova “il Secolo XIX” il 18 novembre, pubblichi una lettera nella prima pagina. “Mi chiamo Claudio Pinto, ho 26 anni, e sono detenuto presso il carcere di Pontedecimo di Genova”. Così inizia la lettera. La lettera non è la solita denuncia della inefficienza del sistema carcerario o del (vergognoso) sovraffollamento, perché si spreca pubblico denaro per  progetti faraonici ma non si adeguano le strutture carcerarie all’impietoso incremento dei crimini. La lettera pone un interrogativo a mio avviso profondo e fondato: “perché non si fanno lavorare i detenuti?”. Il quesito Claudio Pinto lo ha posto già ai mezzi d’informazione e alle “autorità”  (inferisco: senza ottenere considerazione). Il Secolo XIX viceversa gli dà l’onore della prima pagina e la pubblicazione integrale della sua lettera. E vediamoli alcuni punti salienti: “i carcerati sono per antonomasia coloro che hanno fatto qualcosa di sbagliato per guadagnare denaro. Per quello che hanno commesso sono tenuti a stare un tot di tempo in una gabbia.”. Sorge l’interrogativo se lo stare semplicemente in gabbia a contatto con altri detenuti  riabiliti o affini maggiormente le abilità a delinquere. Ed ecco la domanda (provocatoria?) di Claudio Pinto: “Perché in questo flagellato Paese non si riesce a costruire un impianto carcerario che dia la possibilità di reinserimento concreto nella società? Perche non si “sfrutta” la popolazione detenuta a fini positivi? Mi viene da urlare: mandateci a lavorare! Mandateci a spaccare pietre, a tagliare legna, a mungere capre, a sgombrare edifici, mandateci a fare qualunque cosa che ci insegni cosa significa il lavoro, in modo da avere la cognizione, una volta fuori di cosa ci aspetta. Io ho 26 anni, sono entrato in carcere 4 volte, nella mia vita non ho praticamente mai lavorato, non so cosa vuol dire lavorare, tornare a casa la sera stanco ma soddisfatto, o incazzato cl capo, non so cosa sia la vita di tutte le persone “normali”, non so cosa sia un mutuo, delle tasse da pagare, delle responsabilità”. E ancora: “A mandare a lavorare i detenuti ci guadagnerebbero tutti, dal singolo detenuto al capo dello Stato, sarebbe un’azienda che dà sviluppo economico e sostegno finanziario”. Mentre il lavoro è alla base delle carceri francesi, spagnole svizzere e nordiche, nel Bel Paese ci sono problemi molto più importanti come il ponte sullo stretto (se ne parla da quando ero bambino) o il kit del “Grande Fratello” per offrire, i media,  anche attraverso il gioco d’azzardo legalizzato on line, una immagine di società dove il modello di virtù è far soldi senza lavorare (il riferimento a calciatori e veline è d’obbligo). Confesso che questa lettera del detenuto Claudio mi ha toccato profondamente e ciò indipendentemente dalle smentite che i suoi argomenti potranno ricevere. Osservo solo, con chi sbaglia, che spesso la giustizia ha due pesi e due misure. Osservo gli uliveti incolti, i sottoboschi facile esca per incendiari, la spazzatura d’ogni genere sulle spiagge, indice di una “civiltà” che cittadini liberi non possiedono. Osservo la frenetica corsa senza esclusione di colpi ad un impiego nel terziario perché nessuno vuole compiere certi lavori “usuranti” tranne qualche onesto extracomunitario. Secondo il mio umile punto di vista questo detenuto ci ha dato una lezione di Civiltà così concreta che purtroppo non verrà considerata: è un detenuto.  Fossero come Claudio Pinto tanti uomini “liberi”.