Il male che non muore

 Giovanna Rezzoagli

Dal fanatismo alla barbarie c’è solo un passo.”Denis Diderot. “Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre e il furore alla collera. Colui che ha delle estasi, delle visioni, e scambia i suoi sogni con la realtà e prende le sue fantasie per profezie, è un entusiasta; colui che sostiene questa sua follia col delitto, è un fanatico.” François Marie Arouet.Il male è il termine correlativo a bene, configurato dalla tradizione mitologica e filosofica in due diverse accezioni: a) come non-essere del bene; b) come principio antitetico al bene, fornito di una propria realtà o spessore ontologico. E’ anche un termine  il cui significato razionale è relativo all’epoca ed alla cultura di riferimento. A livello di comprensione emotiva è invece prontamente codificato in significati condivisi, in soggetti non affetti da patologie psichiatriche. In termini molto pragmatici e non troppo tecnici significa che ognuno di noi è in grado di avere una comprensione di ciò che è bene e di ciò che è male, a condizione di non soffrire a causa di patologie che comportino un distacco dalla realtà oggettivabile. La comprensione non determina però l’adesione ad un precetto di bene o di male. Le spinte motivazionali che stanno alla base del comportamento umano possono costituire un parametro deterministico nelle “scelte” di vita. Un gelido esempio di quest’affermazione è dato dalla condotta altruistica: essa può essere la sincera promozione della cura degli altri, sino al sacrificio della propria persona; può essere, all’opposto, un disonesto (primariamente nei confronti di se stessi) tentativo di ottenere approvazione sociale, atta a lenire conflittualità di tipo narcisistico. Latané e Darley hanno studiato questo aspetto, molto più comune di ciò che i buonisti come la sottoscritta siano razionalmente disposti ad accettare, arrivando a definire il cosiddetto “effetto del passante”, dimostrando che gli atti di benevolenza compiuti di fronte ad altri sono molto più frequenti rispetto a quelli compiuti quando non si è osservati. Ma perché si sceglie il “male”? Perché si determina il “male” per se stessi o per gli altri? L’essere umano non può essere sbattuto su di una lavagna e spiegato in termini scientifici, per cui non può esistere una risposta assolutistica a queste domande. E’, a mio avviso, interessante notare che alcuni tra i più crudeli personaggi  della storia del novecento involontariamente hanno dato risposte a queste domande. Colui che è causa di “male” per i suoi simili tenta di razionalizzare le proprie azioni: Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita, dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica.” Adolf Hitler. A volte la democrazia necessita di essere lavata nel sangue. Augusto Pinochet. Interessante notare come questi soggetti tendano ad autoassolvere  o a legittimare la propria condotta:“So che dopo la mia morte sulla mia tomba sarà deposta molta immondizia. Ma il vento della storia la disperderà senza pietà” Josif Stalin. “Possa Dio onnipotente concedere la sua grazia al nostro lavoro, orientare la nostra volontà, benedire la nostra intelligenza e colmarci della fiducia del popolo! Perché vogliamo combattere non per noi stessi, ma per la Germania!” Adolf Hitler. Anche ai nostri giorni, in cui il proprio pensiero può essere diffuso attraverso vari canali, il carisma personale è potente elemento di manipolazione di massa. Proprio come nei tempi passati. Oggi molti di noi credo, spero, provino un senso di angoscia profonda di fronte ai crimini nazisti. Ma se la morte di milioni di persone è, nell’immaginario collettivo, l’espressione concreta di un male assoluto, la morte di uno possiede ontologicamente meno pregnanza? La risposta è no. Il male è tale non in ragione di chi o di quanti colpisce, ma è tale in ragione della propria esistenza. Il male sublima se stesso, cresce nel singolo e tracima nella massa, in ragione della logicità apparente che lo configura. L’anomia morale che serpeggia nella nostra epoca è un buon catalizzatore, come seppe esserlo il pensiero superstizioso che animò l’epoca medievale o la crisi economica in Germania nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale. L’uomo non ha problemi a fare del male, se si sente “assolto”. L’uomo è consapevole della propria finitudine e teme il “poi” assai più dell’”adesso”. Il “male “è parte di ogni uomo non meno del “bene”. Il malcontento generalizzato dei nostri giorni sottende il razzismo e la continua ricerca di capri espiatori “al di fuori” dell’azione sociale intenzionale del singolo. Il punto focale è la legittimazione delle varie manifestazioni di intolleranza, più frequenti in vari contesti socio-culturali: si discrimina nelle scuole disquisendo sulla regione di provenienza di docenti ed alunni, si multano i mendicanti che tendono la mano, si giudicano le persone in base a coloro con cui dividono la camera da letto. Il male si alimenta nel disprezzo in luogo del rispetto. Eccolo il pericolo più concreto, l’inganno in cui tanti sono caduti da che l’uomo ha sviluppato il raziocinio: credere di potersi distinguere dai propri simili per aver visto più lontano. Non è con gli occhi che si intravvede questo orizzonte.