Google alla sbarra

Michele Ingenito

 

Prima o poi doveva accadere. Ed è bene che sia accaduto nella patria del diritto. L’Italia, esattamente a Milano. Dove si sta celebrando un processo contro Google, il colosso dell’informazione mondiale. L’accusa: avere diffuso per quasi due mesi un video choc in relazione alle molestie subite da un ragazzo disabile di Torino da parte dei propri compagni di scuola. Google ne guadagnò in “profitti pubblicitari da quel filmino tra i più visti”. Questa l’accusa formulata dai pubblici ministeri milanesi Francesco Cajani e Alfredo Robledo. Nell’inchiesta sarebbero rimasti coinvolti i vertici gestionali di Google Italia, accusati di non avere esercitato il dovuto controllo preventivo sul contenuto del filmino. Per l’esattezza, sul banco degli imputati: David Drummond (Senior Vice-President di Google e Chief Legal Officer), George Reyes (ex-Chief Financial Officer), Peter Fleischer (Global Privacy Counsellor) ed un quarto dirigente del quale non sono state fornite le generalità.“Siamo solo postini” avrebbero sostenuto a discolpa quelli di Google, “incaricati di recapitare missive!”A parer nostro, l’esempio appare alquanto ingenuo, se non provocatorio. Un postino consegna missive chiuse e, comunque, è un esecutivo incaricato dall’azienda di adempiere ad un determinato incarico. Consegnare missive, per l’appunto, riservate a singole persone.Diverso è per un’azienda come Google, le cui caratteristiche sono totalmente diverse. Perché le sue “missive” sono lettere aperte che circolano in tutto il mondo. E, quindi, ogni elemento lesivo dei diritti e della dignità di una o più persone entra in tutte le case del mondo, non in quella alla cui porta bussa il postino. E, poi, se non fosse intervenuta all’epoca la Polizia Giudiziaria che ordinò la rimozione del video on line, è lecito ritenere che la sua diffusione sarebbe proseguita nel tempo.La tesi della Pubblica accusa milanese sembra dunque fondata. Anche se, ovviamente, l’ultima parola spetta ai Tribunali che, come è prevedibile, si succederanno nei vari gradi di giudizio. Se condanna definitiva dovesse essere, però, la giurisprudenza italiana segnerebbe un altro passo importantissimo in un settore ancora scoperto nel campo della tutela dei diritti del cittadino. L’associazione Vivi Down di Milano, che tutela gli interessi di un giovane affetto dalla sindrome di Down preso in giro dai propri stupidi compagni di classe, si è costituita parte civile e, con essa, il Comune di Milano. La difesa è stata affidata all’avv. Guido Camera del Foro meneghino. L’autorevole quotidiano americano Wall Street Journal dà spazio alla tesi dell’accusa, propensa a ritenere Google non meno responsabile dei ragazzi torinesi colpevoli delle violenze e della conseguente pubblicazione su YouTube della loro bravata.Com’è logico che sia, il processo costituisce un precedente a livello mondiale, data l’inesistenza, finora, di casi simili in altri Paesi occidentali. Google insiste nel sostenere di limitarsi a fornire gli strumenti, mentre sono gli utenti i veri responsabili nel momento in cui inseriscono ciò che vogliono nella Rete. La vicenda apre uno squarcio necessario dopo un’infinità di casi che tuttora penalizzano vittime infinite di questa macchina tecnologica necessaria e moderna, quanto perfida e ingiusta. Una sorta di scheggia a volte impazzita nel vasto ed incontrollabile universo dentro cui spesso navigano, volentieri ignorandosi, informazione e disinformazione. Peggio ancora quando, la disinformazione è mirata. Ma questo accade nei bassifondi dell’informazione, dove tanto spesso all’ignoranza si associa la malafede. E, allora, son guai. Non tanto per l’effetto di per sé spregevole che una notizia falsa comunque genera là dove essa vuole intenzionalmente colpire. Quanto per i tempi lunghissimi della giustizia che, tra fascicoli parcheggiati su scrivanie multipiano, e oggettive difficoltà del quotidiano, lascia correre tempi infiniti prima di incastrare i tanti Mr Beef in circolazione. Incastro quasi sempre “a prescrizione”, come sta accadendo per qualche episodio locale a noi ben noto. Il nostro Mr Beef continua, infatti, a dormire sogni tranquilli, nonostante la plateale volgarità e falsità dei propri scritti. Perché la casta – solitamente politica e deviata insieme – sempre sovrintende e protegge, a missione compiuta. Eppure, non vorremmo stare nei panni di questo povero Mr Beef. Perché, prescrizione o non prescrizione, se solo il Beef leggesse meglio tra quelle stesse carte a lui cotanto note, concentrandosi magari su quel che lo riguarda, indirettamente, ma da vicinissimo, non riderebbe più. E qualcun altro insieme lui. Perché, là dove corrono soldini, caro Mr Beef, o là dove si costruiscono “autostrade” o ci si serve dell’’olio’ per far superare in scioltezza difficoltà annunciate, non esistono babbi diretti (o acquisiti) per non varcare qualche sbarra a lei ancora ignota.