Morire per la vita!

di Rita Occidente Lupo

Si può decidere di vivere. Ed anche di morire. Senza barare con la sorte, che a volte sembra mettercela proprio tutta per complicare anche le cose semplici. O per distruggere l’esistenza, prima che questa biologicamente cessi. Un tempo veniva difeso, a denti stretti il diritto alla vita. Rinnegato dalle accelerate femministe, nella loro battaglia per l’aborto. Quello cioè che la Chiesa insegnava a vivere fino all’ultimo minuto, come foriero di speranza o di ravvedimento. Oggi sembra che certi discorsi siano in misture medievali e che ognuno sia arbitro non solo del proprio destino, ma anche della propria vita. Specialmente se questa è ormai rinsecchita dalle sofferenze o isterilita dal coma farmacologico, sempre più coriaceo nel non lasciare spiragli di rinascita. Il caso della giovane Eluana Englao sta facendo eco. Come già fu per Luca Coscioni, Welby, Terry Schiavo. E pensare che dopo quest’ultima si pensava che non potessero ripetersi casi analoghi. E che non si fosse di nuovo coartati tra la morale e la razionalità, tra l’etica ed il diritto, al rispetto della volontà altrui. Tra il pietismo e la solidarietà. La giovane vita della Ingrao riapre una lacerazione legislativa che nel nostro Paese langue. Quella del testamento biologico. Ma non zittisce l’etica nè la coscienza cattolica, che vuole la tutela della vita fino all’ultimo battito. Al di là se artificialmente. Dinanzi alle spinte eutanasiche svedesi, più di qualche sedicente filosofo del nostro tempo, qualche anno addietro ebbe ad additare nella dolce morte, l’incombente pericolo che si potesse giungere ad una liceizzazione delle condizioni in cui cessare di vivere. Se vecchi decrepiti o diversamente abili permanenti. Se ultra acciaccati depressi o inamovibili cerebrolesi. Dinanzi al dolore, niente da commentare, ma solo inchinarsi. E quello di un genitore o di un familiare, che vede languire il proprio caro in stato vegetativo, senza poter essere altro che spettatore passivo, è un dramma sconfinato. Anche se il vecchio detto “finchè c’è vita c’è speranza” , non cessa d’essere trito e ritrito quando spuntano testimonianze inverosimili. Quando cioè, dopo anni di lungo letargo, si rinasce riacciuffando la vita. La scienza ammutolisce dinanzi al giovane che dopo dieci anni di coma s’è risvegliato come da un letargo. Per Eluana, che l’amore delle religiose ha tenuto in vita miscelato ad eparina, antibiotici, sondini e quant’altro è servito per far sì che la sua degenza di circa diciassette anni, scomodasse la Cassazione per una sentenza che il padre aveva invocato da anni, il sonno-letargo non mostra di voler cessare. Ma ormai è troppo tardi anche per sperare. Se lo son chiesti i sanitari, quando hanno tirato a sorte quasi, come per Welby, per capire a chi l’onere di lasciar morire una giovane vita, che amava la vita! Ironia della sorte! “Muore giovane chi al cielo è caro“, docet la Bibbia, ma Eluana fino a che punto, se potesse oggi parlare, griderebbe non il suo inno alla vita, ma la sua voglia di perderla?!